Alcuni giorni fa Gloria Lisi, parlando con i giornalisti a proposito dei lavori del Consiglio Comunale e dello scarso rispetto nei confronti dei consiglieri di minoranza da parte della maggioranza, ha gettato un sasso nello stagno della memoria collettiva. In un ambiente modesto come quello attuale (pur progettato appositamente) si è perduto del tutto il senso di sacralità civile del Consiglio, ridotto a un luogo di confronto fittizio, in cui i cittadini eletti non dibattono i problemi, ma si limitano a concludere con un voto indispensabile per legge “pratiche” amministrative, ma del tutto superfluo quanto a confronto delle idee. Le decisioni sono già state prese e dibatterne ancora, per la maggioranza, costituisce solo una inutile e deprecabile perdita di tempo.
In questo contesto concettuale, Gloria faceva acutamente notare che perfino nella sua cornice fisica, nella modesta qualità del luogo in cui si svolge il Consiglio, si avverte quanto l’amministrazione della città non costituisca ormai più un bene in cui tutti i cittadini dovrebbero sentirsi coinvolti e responsabili. E ricordava che fino a pochi decenni or sono la sede del Consiglio Comunale di Rimini era la Sala dell’Arengo: ossia il centro del centro della Rimini civile.
Quest’affermazione ha sorpreso tutti perché Gloria non ha mai conosciuto, per la sua età, la Sala dell’Arengo in questo ruolo; ma nel caso di molti fra i presenti ha riacutizzato la nostalgia re il rammarico perché la comunità cittadina non ha mantenuto il rispetto per le Istituzioni e per i luoghi ad esse deputati.
La Sala dell’Arengo e l’adiacente Palazzo del Podestà sono stati di fatto privatizzati. Si è rinominato il complesso “Part” ovvero Palazzo delle Arti, e lo si è concesso a San Patrignano per accogliere in maniera permanente la propria collezione d’arte contemporanea, sulla quale la proprietà mantiene un diritto di gestione insindacabile.
Una parte della collezione è sistemata anche nella Sala dell’Arengo, dove è stato ricollocato anche il grande timpano con l’affresco del Giudizio Universale di Giovanni da Rimini, in un “inedito colloquio tra antico e moderno” come declamano i depliant turistici (qualsiasi cosa significhi). Il Giudizio è stato montato su un sostegno disposto in diagonale ad occupare l’intera sala: dividendo lo spazio, quasi a sancirne la definitiva sottrazione all’uso originario, quasi a impedirne programmaticamente qualsiasi uso unitario.
Senza entrare nel merito della qualità di questa collezione privata, mi limito a far notare che l’operazione ha sottratto alla collettività uno spazio simbolico civile che per secoli ha accolto le attività in cui tutti i cittadini si riconoscevano: discutendo e decidendo del proprio futuro.
La mia non è solo una provocazione. Ricordo bene com’era la Rimini in cui giunsi quasi sessanta anni or sono, ed il ruolo della Sala dell’Arengo. Non si tratta della banale nostalgia di un vecchio, ma del rimpianto per uno spazio che aveva un ruolo importante che purtroppo non è stato salvaguardato.
Rimini era una piccola città non ancora capoluogo di Provincia, martirizzata come poche dalla guerra, ricostruita in poco più di venti anni in maniera sorprendente a riprova di una vitalità eccezionale di tutte le sue forze, pubbliche e private; che addirittura era diventata una “capitale mondiale del turismo” come dicevano i riminesi (ed alcuni dicono tuttora). Ai miei occhi di giovanissimo architetto vissuto ed educato in città ben più importanti culturalmente (pure assai colpite dalla guerra) lì per lì sembrava un paesone sgangherato, brutto per gli oltraggi subiti, che non riuscivo ad amare.
Però assai presto divenne davvero la mia amata città, soprattutto perché compresi che qui c’era una vita di relazione civica che riuniva sotto uno stesso cielo tutti i cittadini, tutte le classi sociali, tutte le categorie: magari per discutere fino ad accapigliarsi, insultarsi, sfottersi; sempre contraddistinti da bonomia, disponibilità a partecipare, interesse alle cose collettive e adesione disinteressata ai drammi e sentimenti privati.
Il carattere romagnolo di Rimini, che non considero un generico apprezzamento sentimentale strapaesano. Ebbene quello stesso cielo, sotto il quale tutto o quasi avveniva e si dibatteva, era la Sala dell’Arengo, al centro di Piazza Cavour, al centro del centro. In questo immenso vano, grande quasi come la piazza, erano allestiti gli scranni del Consiglio Comunale, che però ne occupavano solo una piccola parte; mentre una parte ancora più grande era destinata alle numerose sedie per il pubblico; ed infine quasi la metà era vuota, e tutti purché senza fare rumore, potevano assistere come preferivano al Consiglio: seduti, in piedi, a capannelli, andando e venendo a piacimento.
Poi qui non si svolgeva solo il Consiglio. La città era poco dotata di spazi per attività collettive: non c’era il teatro, c’era solo la saletta dell’Azienda di soggiorno a Marina (che in inverno con la nebbia chi ci andava?); neppure gli alberghi avevano sale conferenze: ma c’era l’Arengo, ove si svolgevano dibattiti, congressi (sindacali, di partito, di categorie ecc.), concerti di vario tipo, rappresentazioni teatrali, e molto altro ancora.
Ricordo il Living Theater, gli Inti Illimani appena fuggiti dalla repressione di Pinochet, Dario Fo e il Mistero Buffo, Giancarlo De Carlo che illustrava all’intero Arengo gremito le sue farneticazioni urbanistiche avvalendosi di una lavagna e di qualche diapositiva proiettata con un proiettore Carousel: che non si vedeva niente, ma sembrava di partecipare alla trasformazione urbana in diretta. E poi le assemblee degli studenti, le lotte sindacali e gli scioperi.
E poi ancora e sempre il Consiglio Comunale in cui altro che ratificare le decisioni già prese senza poterne discutere! Se la maggioranza “andava sotto” saltavano il Sindaco e la Giunta, e guai a farsi beffe dell’opposizione: occorreva mediare, discutere e fare politica lì, sotto quel cielo che tutto unificava, la Sala dell’Arengo.