Apprendo che Lino Vici è morto e tanti ricordi mi investono. Non posso fare a meno di riflettere su un pezzo di storia di Rimini di cui lui è stato, nel bene e nel male, protagonista e che, dunque, va narrata riconoscendo il suo ruolo anche per rendergli il giusto merito.
Non ci si vedeva da anni, probabilmente gli anni del presente secolo. Nel vecchio, invece, di secolo, ci siamo molto frequentati, dal punto di vista sportivo, politico istituzionale, umano -se si vuole-. Ho conosciuto Lino sul finire degli anni ’70 per una esperienza sportiva ai limiti della normalità che facemmo insieme. Io mi ero messo a fare podistica alla Forrest Gump: mi ero messo a correre per scaricare tensioni psico-fisiche e, dunque, correvo, correvo, correvo.
Una delegazione riminese di podisti decise di partecipare al TransCivetta, una competizione in Veneto che consisteva nello scalare la montagna omonima (anzi “il monte” come si diceva con ironia e senza offese di genere) lungo un percorso che era chiuso al transito pubblico e che, col presidio degli alpini, si apriva solo in occasione di quella atipica podistica (parlo al passato perché non so se ancora la si faccia). Era obbligatorio parteciparvi in coppia, proprio per garantire una assistenza immediata per effetto della vicinanza del compagno d’avventura.
Decisi di partecipare e di fare gli allenamenti del caso. Ci si allenò correndo in Carpegna e lì conobbi Vici, che era il leader naturale del gruppo. Lino era un atleta eccezionale, con un palmares di tutto rispetto: più di una Firenze-Faenza, la mitica 100 chilometri del Passatore (che per me e per tanti come me è rimasta un sogno irrealizzato), più marcialonghe con gli sci di fondo ecc, ecc. Mi ha insegnato, appunto, con tanta pazienza a correre le campestri e, in particolare, le campestri di montagna: sembrerà banale “correre”, eppure, come Lino rilevava, la corsa in discesa è la corsa sul terreno più difficile per il podista.
Io comunque, che sono longilineo, al contrario di lui che era un poco basso di statura, sono diventato un corridore da salita (e da discesa) e sul TransCivetta ho provato l’emozione unica di correre su di un prato a circa 2000 metri d’altezza, con un’erba soffice più della gommapiuma (ma pensa che paragoni mi vengono in mente!), in un ambiente fantastico e che tale diventa più passano gli anni. Ed ho condiviso con Lino questo tipo di esperienze!
Più tardi, negli anni ’80, l’ho ritrovato come Assessore alla Polizia Municipale, o come si chiamava. Io ero sindacalista per il pubblico impiego della C.G.I.L. e, dunque, avevo ed ho avuto a che fare anche con lui, assessore con incarichi importanti e, per certi versi, nell’occhio di un ciclone che attraversava la pubblica amministrazione riminese, oltre che nazionale. Devo dire che con lui ho avuto, in quel tempo, più motivi di disaccordo che di accordo. Ma avevamo a che fare, nel nostro piccolo, con strutture, ruoli e funzionamento della Pubblica Amministrazione italiana in quei momenti di grande trasformazione che si delineeranno in tutta la loro portata nel decennio successivo, gli anni ’90 del secolo scorso.
Non so dire perché e come Lino fu scelto come assessore alla Polizia Municipale. Era un periodo complicato. Rimini viveva, non da sola in Italia, una crisi del rapporto tra il management pubblico ed il quadro politico ancora -ma per poco ancora- post bellico: dopo qualche anno scoppierà il caso cosiddetto di “Mani pulite” in Lombardia, a Milano, ma di fatto in tutta il territorio nazionale.
A Rimini per una iniziativa del PCI di allora, o perlomeno di una sua parte, dato che potrei dire -schematicamente- che il gruppo dirigente impiegato nelle istituzioni soffrì di fatto l’iniziativa; a Rimini, dunque, vi fu una denuncia con strascichi giudiziari e disciplinari di una specie di loggia (si direbbe oggi) composta dai vertici delle varie branche di pubblica amministrazione operanti sul territorio, il tribunale, forze di polizia e della finanza, ecc. Ne era coinvolto anche il Comune tramite il dirigente della Polizia Municipale.
Non entro nel merito di quei fatti come sarà compito degli storici fare, con più tempo a disposizione e più mezzi di conoscenza. Rilevo solo un quadro d’insieme che condizionava inevitabilmente l’operatività di tutti i soggetti politici dentro le istituzioni, me compreso e Lino Vici compreso.
Lino Vici era “di sinistra”, come lo ero io e come lo erano tanti, soprattutto dalle nostre parti negli anni ’80 del secolo scorso. Io lo ero, e lui più di me, per ragioni prima di tutto antropologiche: eravamo dipendenti di enti di pubblica amministrazione, in una Regione in cui il pubblico era riconosciuto come fattore di riequilibrio economico e di sviluppo sociale, con una attenzione al ruolo “democratico” del pubblico impiego. Dico questo per rilevare che c’erano anche ragioni assiologiche -per così dire-, cioè ragioni di valore -o di valori- in una militanza apparentemente molto caratterizzata.
Ma in effetti stava perdendo di senso l’essere di sinistra, lo schierarsi alla sinistra di una polarità (destra /sinistra) che fino ad allora aveva connotato simbolicamente l’organizzazione dello spazio politico. Insomma tra destra e sinistra cominciavano a sfumarsi le differenze, soprattutto sul piano dei comportamenti dei rappresentanti, sempre più condizionati dalle regole “oggettive” delle tecniche di governo, a partire da quelle dell’economia e della finanza.
Il nostro rapporto politico ed il nostro confronto/scontro sui valori della sinistra erano proprio dentro processi di trasformazione del ruolo della Pubblica Amministrazione. A Rimini, come in Italia, le deviazioni più o meno a rilevanza giudiziaria erano un aspetto che riguardava gli organi di vertice della Pubblica Amministrazione, ma erano funzionali a processi di ridimensionamento dello Stato ed in particolare del Welfare State per come si erano affermati per tutto il dopoguerra e fino ad allora. E ne risentivano anche i processi di democrazia e di condizionamento democratico dei servizi pubblici attraverso la compartecipazione di fattori politici o rappresentativi esterni all’apparato. Quindi cominciava a prevalere una visione del ruolo, in ispecie, degli assessori meno competitivo e più omogeneo al ruolo dei tecnici. Si potrebbe dire, anche in proposito, che questo avveniva nel bene e nel male.
Ci si attardava, a sinistra, dopo il sessantotto ad etichettare chi fosse più di sinistra o meno, sulla base di valori di riferimento. Intanto i processi che sul finire del secolo prenderanno il nome di globalizzazione ridimensionavano i compiti degli Stati, trasformavano le pubbliche amministrazione a partire dalla ridefinizione dei ruoli dei politici e dei tecnici, mettevano in discussione le “democrazie” occidentali.
Ma questi erano problemi che avevo soprattutto io, appunto, e che non aveva Lino, dato che lui era un politico “del fare” ante litteram. Aveva tanti interessi e mille obiettivi da perseguire, ma li coltivava, gli interessi, e li perseguiva, gli obiettivi, in modo senz’altro intuitivo e forse troppo fideistico.
A lui non interessava fare la ”rivoluzione”, come si declamava, dopo il sessantotto: era un programma troppo complicato, per lui che militava a sinistra con l’esigenza di dare continuità ad un dopoguerra del buon governo emiliano romagnolo. E non è affatto una banalizzazione, questa, perché c’era una linea di pensiero, prettamente emiliano-romagnola, che definiva i personaggi politici che si immettevano, per elezione, nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione italiana come i fattori dell’apertura della Pubblica Amministrazione medesima, del suo conseguente rinnovamento, del suo rinnovato funzionamento “democratico”.
Sto sostenendo, con queste note, che le buone intenzioni di Lino Vici non avevano più le condizioni per attuarsi. In buona sostanza Lino Vici non riuscì a dare contributi ad una riorganizzazione della Polizia Municipale di Rimini, rimanendo stritolato tra opposte esigenze di trasparenza del corpo di polizia contro esigenze di efficienza ed efficacia garantite dalla gerarchia (tutte presunte, ovviamente, sia le une che le altre).
Ricordo che quando lo sollecitavo a prendere posizione contro processi di militarizzazione del corpo dei vigili comunali, mi rispondeva con discorsi irenici, di pacifismo e di ottimismo improbabili. “Lasciatemi lavorare -sembrava che dicesse-, metterò tutti d’accordo”. Ma evidentemente bisognava scegliere, schierarsi, anziché tentare improbabili composizioni di contrasti insuperabili.
Ci rimase male quando fu rimosso da assessore. Si comportò come quei calciatori che, sostituiti nel corso della partita, mandano tutti a quel paese, a partire dall’allenatore. Ma, in questo caso, non era ben chiaro chi fosse l’allenatore responsabile, se il Partito od il Sindaco, e soprattutto si manifestavano processi che erano più grandi dei giocatori in campo. Il suo fallimento appariva come l’incapacità di dare un contributo al funzionamento democratico di un servizio di pubblica amministrazione; si voleva che apparisse come una incapacità tout court.
E su una accusa ingiusta di incapacità amministrativa si continuò a insistere. Vici non era un politico passivo, tutt’altro. Prese decisioni, in proprio ed in organismi collegiali, che gli costarono processi giudiziari. In uno di questi ebbe come avversario l’avvocato Accreman che, per quanto in dissenso con il PCI di cui fu dirigente apprezzato, era comunque uno di “sinistra”. L’avvocato Accreman lo accusò in modo esplicito e quasi brutale di incapacità amministrativa, ma l’accusa, per quanto ad effetto come si addiceva ad un riconosciuto principe del foro, era ingiusta.
Lino Vici ebbe incarichi di prestigio nel campo dell’igiene ambientale, della sanità e, sul finire, negli organismi di decentramento amministrativo e fu senz’altro rispettato, tanto quanto lui era rispettoso di tutti (forse fin troppo, nel caso della Polizia Municipale). Mantenne sempre il suo carattere attivo, aperto alle istanze della cittadinanza, in sostanza collaborativo.
Ma l’essere collaborativo presuppone che ci siano in atto processi aperti alla collaborazione e, soprattutto aperti per come li conosceva Lino Vici. Ma quei processi non erano più in atto. Eppure è un fatto che in tutta la sua attività di pubblico amministratore, pluridecennale, Lino mantenne un rigore morale ed una correttezza che gli rende onore, che condivise con tanti come lui, a Rimini ed in Italia, e che è stato un errore anche politico mettere sotto tono con gratuite accuse di incapacità.
Ho parlato anche di un rapporto umano che ho intrattenuto con lui. È stato infatti un rapporto di rispetto, di simpatia ed anche di ironia.
Ricordo una serata in compagnia sua e di altri tra i quali Piero Leoni e Carlo Morigi. Si scherzava facendo finneghismi, a partire dal suo nome e cognome e dalla sua statura bassa. Mi pare che fu Leoni ad uscirsene col dire che Vici aveva un seguito elettorale di tutto rispetto, perché risulta dalla stampa che “Bassolino fa man bassa di preferenze elettorali” (per chi non l’abbia conosciuto, Bassolino fu parlamentare napoletano, poi sindaco della città e presidente di regione). Morigi, mi pare, rispose rilevando che il Corpo di Polizia Municipale di Rimini si era dotato di un “vigilino”. E tutti ridevano, l’ironico Vici compreso.
Paolo Mussoni