Radici e tralci della cultura riminese all’estero

Intervista a Edoardo Crisafulli, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Kiev

Rimini è una città a “vocazione internazionale”: quante volte abbia sentito questo mantra, negli anni passati, quando Delegazioni riminesi si permettevano ricche trasferte americane per “esportare” il nostro mitico Fellini come segno identitario di una città che poco si identifica realmente col Maestro? In realtà, poco è stato fatto per coltivare una rete di relazioni attenta a trasmettere e recepire il nostro preteso internazionalismo. Edoardo Crisafulli è uno dei pochi diplomatici riminesi che operano da anni in vari Paesi stranieri e recentemente a Kiev come Direttore del locale Istituto di Cultura. Avendo la fortuna di averlo a Rimini e prima del suo rientro nella martoriata città Ucraina, abbiamo voluto porgli qualche domanda “scottante” sui suoi rapporti con Rimini.


Edoardo Crisafulli, sei un riminese doc, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Kiev, città drammaticamente protagonista di una guerra insensata, ma sembra che Rimini non se ne sia quasi accorta. Qual è il tuo rapporto, sia a livello istituzionale che privato, con la tua città?

Sì, infatti…Credo che Rimini possa giocare un ruolo molto più importante nella gestione dell’accoglienza ai profughi, non dimentichiamo che da noi opera la benemerita Associazione Papa Giovanni XXIII. Rapporto istituzionale: assente, in questo momento. Confido, per il futuro, in Riccardo Fabbri, capo della segreteria comunale, amico di gioventù, persona onesta e molto preparata – funzionario della FGCI quando anch’io ero un comunista di belle speranze (anni Ottanta!).

Personale: beh, a Rimini sono nato e cresciuto, ho frequentato tutte le scuole qui, dalle elementari (Maestre Pie), alle medie (Panzini), alle Magistrali (Manara Valgimigli), e qui sono nate anche le mie due figlie. La storia della mia famiglia è legata allo sviluppo impetuoso del turismo riminese.

Mio padre, Giovanni (noto anche come Ingo), arrivò da Roma nel 1963 per dirigere l’Aeroporto di Miramare. Mia madre negli anni Settanta fondò la celebre “British School”, ubicata a Marina Centro, che ora è gestita egregiamente da mio fratello Riccardo.

Il mio rapporto con Rimini? Sono affezionato alla mia città, ma a volte mi fa venir rabbia una certa mentalità superficiale (grazie a Dio non condivisa da tutti i riminesi) che definisco “piadinam et circenses”. Mentalità, questa, che è alla base del successo elettorale dell’ex Sindaco Gnassi. Il quale non ha capito che il turismo degli anni Settanta e Ottanta non tornerà.

Rimini avrebbe le carte in regola per diventare una città d’arte, a tal fine la nuova Amministrazione dovrebbe rimboccarsi le maniche. Occorre una inversione a “U” su alcune iniziative senza costrutto e senza respiro. La “Notte Rosa” e altre amenità del genere potevano andar bene trent’anni fa, non oggi. E sono oltretutto in contrasto con le iniziative valide, come il PART (il museo d’arte contemporanea). Queste ultime, quelle valide, vanno seguite con attenzione, per evitare l’effetto “fuoco di paglia”: si fa qualche evento effimero strombazzato dai media, e poi sopraggiunge la stagnazione progettuale.


Il tuo rapporto con l’ex sindaco Andrea Gnassi è stato sempre piuttosto aspro: quale sono state le ragioni del tuo giudizio non propriamente benevolo nei suoi confronti? E oggi cosa diresti al suo delfino, il nuovo sindaco, dal tuo Osservatorio privilegiato?

Veramente non è proprio così: io (come Gloria Lisi, credo) sostenni Gnassi durante il suo primo mandato, avevo anche fatto campagna elettorale per lui. All’epoca mi ispirava fiducia. L’ex sindaco, che ha indubbie capacità, a mio avviso ha fatto alcune cose buone. La ricostruzione del Teatro Galli, su progetto della giunta Ravaioli e su impulso di Stefano Pivato, è un suo fiore all’occhiello: anche il portare a termine progetti impostati da altri è motivo di vanto. Così come lo è l’aver migliorato il decoro cittadino, nel centro storico, dopo anni di stagnazione. Infine il museo PART, che ospita la collezione San Patrignano, è un’idea eccellente.

Tuttavia la spinta propulsiva, a un certo punto, si è affievolita per poi spegnersi del tutto. Gnassi e la sua Giunta hanno ignorato Borgo Marina, ove abita la mia famiglia, forse la più importante porta d’ingresso in città per chi proviene da Marina Centro. Gravissimo errore, questo, che ha compromesso seriamente l’operazione di rilancio della città. Propagandi il Museo Fellini fra frizzi e lazzi e poi, a poche centinaia di metri, c’è il degrado? Che ne pensano i turisti in cerca di prodotti Made in Italy?

È evidente che a Gnassi importasse solo del Borgo San Giuliano, chissà perché. Anni fa gli abitanti di Borgo Marina hanno costituito un comitato apolitico, neutrale, che ha tentato in tutti i modi di sensibilizzare il Comune su varie problematiche, tutte risolvibili con buona volontà. Il Comitato ha trovato la porta sbarrata. Il PD e i suoi rappresentanti se ne sono allegramente infischiati. Eppure sarebbero bastati due milioni di euro tolti alla cifra enorme destinata al Museo Fellini per acquistare i principali negozietti del quartiere al fine di adibirli a servizi per gli studenti universitari e/o ad attività commerciali che vendano prodotti tipici romagnoli. L’immagine di Rimini ne sarebbe uscita potenziata. E il degrado sarebbe scomparso. Oggi, nel nostro Quartiere, solo il ristorante l’ARTROV di Riccardo continua a fare opera di prevenzione. Ti assicuro che i vecchi comunisti erano amministratori migliori e più lungimiranti: a Riccione, ci tenevano, eccome, al decoro di Viale Ceccarini!

Intendiamoci: io giudico dai fatti. Nelle elezioni comunali devono prevalere il pragmatismo e il buonsenso più che l’ideologia e l’appartenenza partitica. Per reazione alla fase regressiva che Gnassi ha impresso alla sua Giunta nel secondo mandato, ho sostenuto Gloria Lisi: mi pareva un’eccellente alternativa all’immobilismo asfittico di questa sinistra avvinghiata al potere come l’edera ai muri, e una destra incapace di esprimere una vera classe dirigente, ad eccezione di Gioenzo Renzi, il quale, bisogna riconoscerlo, ama molto Rimini. La destra non è mai riuscita a candidare una figura eleggibile, ve ne rendete conto?

Gnassi, accanto ai progetti validi che ho menzionato – che sono allo stato larvale, mi auguro che saranno gestiti con professionalità, sulla base di una programmazione pluriennale – ha sostanzialmente gettato fumo negli occhi: il Museo Fellini (su cui tornerò), è stato un fallimento: la “fellinizzazione” del centro storico è superficiale, pressapochista, con punte di volgarità in stile kitsch. Eccolo, il cuore del problema: Gnassi si è avvitato su se stesso, si è ritagliato il ruolo, a lui congeniale, di uomo solo al comando. Il dispotismo è senz’altro una leva efficace per imporre le rotonde, o spostare un mercato cittadino; non è una strategia utile e vincente in una democrazia.

Ed è deleteria nella sfera culturale, che è quella più cruciale per il rilancio dell’immagine di Rimini, tuttora percepita come città che incoraggia un turismo mordi e fuggi, vecchia maniera; il ‘divertimentificio’ insomma.

Il vecchio PCI, pur con tutti i suoi limiti, aveva una visione più organica. Il dialogo con i cittadini e con gli intellettuali lo voleva, eccome. Io, dopo l’esperienza giovanile comunista – che non rinnego affatto, anzi ne sono fiero – sono passato a quella socialista. Sono figlio della Prima Repubblica, non posso dimenticare che i partiti storici erano una palestra di democrazia. In quel tempo cultura e politica erano vasi comunicanti. Noi, alla FGCI, passavamo dalla lettura di Gramsci alle discussioni di politica internazionale, per approdare ai problemi cittadini (le tossicodipendenze, il degrado sociale, la necessità di uno sviluppo civile e culturale che affiancasse quello economico).

Oggi conta solo la comunicazione. A Gnassi, che tanto giovane non è, rimprovero proprio questo: l’aver assecondato la deriva autoritaria e plebiscitaria dei nostri tempi. Una deriva propiziata dall’avvento dei social media: alle discussioni snervanti, ma produttive, del tempo che fu – humus della democrazia partecipata – si è sostituita una comunicazione ossessiva, calata dall’alto da un gruppo di yes men al servizio dell’Uomo unico al comando. E così la buona, vecchia politica ha subito una mutazione genetica: si è trasformata in un marketing permanente. Obiettivo: deve regnare – in maniera totalizzante – una sola narrazione, scarnificata: la deve capire anche un idiota. I corpi intermedi – associazioni, sindacati – sono zavorra. A meno che non portino acqua al mulino del Signore feudale di turno. Il cittadino, ogni 5 anni vota come se mettesse un like su Facebook. Cos’è questa se non l’asfissia della politica democratica?

Ricordate i post su Facebook in cui Gnassi, alcuni anni fa, sfoggiava fisico aitante e sorriso, attorniato dalla sua squadra, in spiaggia, ebbene, quella era una copia sbiadita di ciò che faceva Berlusconi quando portava a spasso i suoi fedelissimi, in tuta. In questo modello deteriore di prassi politica, l’immagine esteriore sovrasta tutto: nessuna crepa, nessuno screzio, guai a mostrare il dissenso col capo carismatico. Non è questa la sinistra democratica nella quale ho militato per oltre 40 anni. Sarebbe ingeneroso, però, prendersela solo con Gnassi: il PD (non solo quello riminese!) l’ha sostenuto, o no?

La mia rottura col PD è totale da quando anche i vertici regionali di quel partito hanno rinnegato il principio basilare che pure rivendicano con sussiego da sempre: le primarie quale strumento essenziale di partecipazione democratica. Come sarebbe a dire, le primarie le cancelli perché pensi che il delfino di Gnassi ― il candidato in pectore prescelto dall’alto ― possa perderle? Cos’è, questo, un feudalesimo 2.0? È riemerso l’antico vizio leninista, riverniciato affinché coesistesse con la rivoluzione digitale: i gran capi decidono, la base del partito non capisce ma si adegua, il popolo bue viene radunato e intruppato dai pastori saggi. Il gruppo dirigente del PD, in Regione, non avrebbe dovuto tollerare un tale sopruso. I nodi, prima o poi, verranno al pettine. Per quello che mi riguarda ho deciso che non voterò più il PD, finché non cambierà registro. Le primarie, tra l’altro, avrebbero consentito a noi socialisti di presentare un nostro candidato indipendente.

Il mio consiglio a Jamil? Che tagli di netto il cordone ombelicale con il suo “maestro”. In politica la visione deve far aggio sul rapporto personale, di amicizia. Dovrebbe aprirsi una nuova stagione. Che Jamil nomini una persona competente quale Assessore alla cultura. Chiara Bellini, ricercatrice, sarebbe ottima per quel ruolo. E poi insieme, lui e la Bellini, dovrebbero nominare un manager culturale con profilo internazionale che coordini le attività delle varie istituzioni o enti riminesi preposte alla cultura (Biblioteca Gambalunga, Teatro Galli, Museo felliniano, Museo PART, Museo cittadino ecc.), raccordandone la programmazione a quella di eventuali Festival (Biennale su Fellini?). Per imboccare questa, che è la via maestra, occorrono due qualità essenziali: coraggio e intelligenza politica. Vedremo se Jamil le ha o se, avendole, saprà tirarle fuori.


Hai sparato a zero sul Museo Fellini, ma qual è in generale il tuo giudizio sullo stato della cultura riminese oggi, ammesso che esista?

In verità l’idea del Museo sarebbe stata geniale. Il problema è il modo, farsesco, sciatto, con cui è stata realizzata. Tanto fumo e poco arrosto, per dirla con schiettezza. In politica c’è solo una cosa peggiore rispetto all’essere privi di una visione: avere quella sbagliata e perseguirla con l’ostinazione di un mulo. Anzitutto il luogo non è idoneo: un castello rinascimentale di rara bellezza trasformato in un contenitore? La cementificazione di una piazza storica? Errori strategici, di impostazione, che inficiano la validità del progetto ab initio: su questo ha ragione lo storico dell’arte e filosofo Giovanni Rimondini.

Detto ciò, ho apprezzato la mostra interattiva all’interno di Castel Sismondo: una decina d’anni fa strinsi amicizia con Paolo Rosa, uno dei fondatori di “Studio Azzurro”, a Tokyo: un artista straordinario, una gran bella persona. C’è un fatto incontestabile, al di là dei giudizi estetici, che sono soggettivi: il Museo Fellini, così com’è stato concepito e realizzato, compresa quindi la piazza cementificata, è una banale operazione di marketing, oltretutto inefficace sul medio e lungo periodo. Non venderà “il prodotto Rimini” negli anni a venire, statene pur certi: quando si apre quella scatola scintillante si rimane con l’amaro in bocca… L’operazione è fallimentare anche dal punto di vista (commerciale) di chi l’ha concepita: secondo voi arriveranno mai i 3-400.000 visitatori l’anno millantati? Io finora non ho visto neppure un centesimo di queste folle, e siamo nell’anno inaugurale, figuriamoci i prossimi.

In 25 anni di lavoro nella promozione culturale ho imparato due lezioni fondamentali:

a) i criteri costituiscono il fondamento di ogni operazione culturale; b) gli eventi si dividono in due categorie: quelli effimeri (il concerto al di fuori di un Festival, ecc) e quelli strutturali (per quanto riguarda gli Istituti Italiani di Cultura: rapporti stabili con Musei e Festival, traduzione del libro italiano, insegnamento della lingua italiana ecc.). I primi generano un movimento che è buono per una stagione. I secondi lasciano tracce profonde. Il Museo Fellini appartiene alla prima categoria: dov’è il comitato permanente del Museo? Che programmi ha? Chi ne è il direttore? Suggerisco un modo efficace per rendere strutturalmente solida l’operazione Fellini ― ne parlavo con Paolo Fabbri: fondare una scuola di cinematografia collegata a un dipartimento universitario & una biennale d’arte contemporanea (intesa in senso lato) dedicata a Fellini, con relative residenze d’artista.

In verità ci sono stati alcuni, timidi segnali positivi nella politica culturale a Rimini. L’operazione più felice, secondo me, è il PART, che ospita la collezione San Patrignano. È ancora presto per dare un giudizio: come verrà sviluppato questo progetto? Mi pare che siamo agli inizi. Temo, anche qui, l’effetto “fuoco di paglia”. Il problema è che le idee valide, come il PART, sono tuttora collocate in un marketing turistico di bassa lega, il che confligge con ogni politica culturale di qualità. C’è un altro errore di fondo, molto serio: finora non c’è stata alcuna saldatura fra centro e mare. Soltanto l’utilizzo in chiave culturale delle colonie di epoca fascista (il miglior modo per defascistizzarle) consentirebbe di congiungere città storica e città balneare. Su questo tornerò.

Questa idea non è stata discussa seriamente perché l’approccio di Gnassi non tollera un contraddittorio autentico, che sfoci in progetti condivisi: e infatti nessun intellettuale di chiara fama e/o manager della cultura è stato coinvolto al di fuori di un mero rapporto di consulenza, limitato negli scopi e nel tempo. Eppure Rimini avrebbe bisogno di ingaggiare professionisti a tutto tondo, teste pensanti. Ricordi i bei tempi, quando la Biblioteca Gambalunga era diretta da uno scrittore come Piero Meldini? Perché quell’esempio dovrebbe essere irripetibile? So che è appena stata nominata una funzionaria molto valida, ma con contratto a termine. Perché? La cultura non ha bisogno di burattini di cui disfarsi non appena mostrano spirito di iniziativa.

Anche questo rimprovero a Gnassi: l’intrusione sistematica della politica nella sfera tecnica, che non compete a un politico. Qui si mescolano arroganza e provincialismo. Un vero leader non si sente sminuito nel circondarsi di teste d’uovo, tutt’altro: ne ricava orgoglio e prestigio. Chiarisco un punto, a scanso di equivoci: fra il 2019 e il 2020, chiesi alla Direzione generale per la promozione del sistema paese (Ministero degli Esteri), presso cui prestavo servizio, di designarmi nel Comitato per le celebrazioni felliniane. Lo feci per dare manforte alla città. Gnassi però non volle ascoltarmi: sa tutto lui.

Pensa che, nella nostra ultima conversazione telefonica, saranno passati un paio d’anni, s’era incaponito nel dirmi, lui!, come si gestisce un Istituto Italiano di Cultura all’estero (i miei 25 anni di esperienza internazionale li ho maturati in Europa, in Medioriente, in Giappone). Era convinto di poter “mettere su un tendone” a Los Angeles con all’interno la fantasmagorica mostra felliniana del Comune. Ovvio, secondo lui, che decine di migliaia di americani sarebbero accorsi e avrebbero pagato il biglietto per visitarla. Un’idea campata per aria, che avrebbe richiesto milioni di euro, che infatti non è mai decollata. Ecco cosa intendo per commistione fra politica e sfera tecnica: a ognuno il suo mestiere.


Tu sei da sempre “Socialista”, anche ora che il Partito socialista praticamente è scomparso. Cosa significa per te questo radicamento in un terreno che sembra lontano le mille miglia dal panorama odierno, il terreno di Nenni e Saragat fino al “dannato” Craxi al quale hai dedicato un libro per l’editore Rubettino?

Socialista da quando avevo 22-23 anni, prima, l’ho già detto, ho avuto un’intensa esperienza nella FGCI riminese. Straordinaria, quell’esperienza, sotto il profilo sia umano che culturale. Il PSI odierno è piccolo, sì, ma combattivo. Io spero che un giorno tornino le percentuali a due cifre. L’ideale socialista (in parte coincidente con quello del vecchio PCI) non può tramontare. Il reddito di cittadinanza, per limitarci a un esempio, è una vecchia idea socialista. Lo Stato sociale (istruzione e sanità pubblica, ecc) non è forse sbocciato nella cultura socialdemocratica di Nenni e di Saragat (arricchita dagli apporti del cristianesimo sociale)? Craxi aveva la stoffa dello statista, era un leader di grande spessore, ho voluto difenderlo da quella che è senza dubbio una demonizzazione pazzesca. Mani Pulite, con il suo giustizialismo manicheo, giacobino, con l’odio che ha rinfocolato, è stato una iattura per l’Italia.


Rimini ti ha mai coinvolto nelle sue pretese di apertura “internazionale” oggi o in passato, quando per esempio dirigevi l’Istituto Italiano di Haifa?

Rimini ha un serio problema di internazionalizzazione, come altre città italiane del resto. L’unica persona che mi ha coinvolto finora è il professore Stefano Pivato, già assessore alla cultura ed ex Rettore dell’Università di Urbino. Sia Stefano che Marisa, sua moglie, sono cari amici di famiglia. Grazie all’entusiasmo di Stefano (che trovò anche gli sponsor) riuscimmo a realizzare la prima mostra con i disegni di Fellini in Israele, proprio a Haifa – nel 2004, se ricordo bene. Un successone.


Cosa avresti da proporre alla tua città per farne davvero se non proprio una Capitale della Cultura almeno una città “colta”, senza nascondersi dietro l’ombra di Fellini?

Uno scatto di coraggio: la politica dia indicazioni strategiche e poi faccia un passo indietro: coinvolga cioè in maniera sistematica gli esperti di promozione culturale e gli intellettuali. Si dice che il Museo Fellini ci sia costato un’enormità, ben 13 milioni di euro. Sapete quanto ci sarebbe costato restaurare la stupenda Colonia Novarese? Intorno ai 16-17 milioni. Vi rendete conto? Bastava sommare il denaro pubblico con gli investimenti di una cordata di imprenditori… Insomma, si sarebbero trovati quei 2-3 milioni che, aggiunti ai 13 già disponibili, avrebbero consentito di dar vita a una struttura polifunzionale unica in Italia: 9.000 metri quadrati, con vista mare fino a Gabicce, nonché un parco immenso: è lì la casa del Museo Felliniano. In aggiunta al Museo (o parte di esso), immagino: una multisala per proiezioni, una scuola di cinematografia, un ristorante-bar, un piccolo albergo. Si potrebbero organizzare residenze d’artista e iniziative simili. Anche il parco dovrebbe far parte del Museo: ricordo lo stupendo museo Vangi, in Giappone: un museo di sculture all’aperto dedicato al grande artista italiano. Dovremmo fare qualcosa di simile: utilizzando, ripeto, gli spazi al chiuso e il parco all’aperto. Il Comune, con il PART, si è mosso in quella direzione: l’attuale collocazione del Museo, tuttavia, ne soffoca le potenzialità per via degli spazi (interni ed esterni) ristretti. Mi ripeto: sarebbe necessario ampliare gli spazi del PART, creando una sua “succursale” nella Novarese.

Eccolo il progetto per eccellenza, se Rimini ambisce davvero a diventare capitale della cultura: la Colonia Novarese restaurata! Ciò creerebbe centinaia di posti di lavoro, incentivando l’afflusso di turisti della cultura tutto l’anno. Rimini si imporrebbe sulla scena nazionale con una iniziativa solida, strutturale, di ampio respiro. In quell’edificio si potrebbe far nascere anche un centro d’arte contemporanea che, come dicevo, costituisca il completamento ideale del PART; il Museo Fellini dovrebbe essere organizzato sulla falsariga di tutti i grandi Musei: una parte dello spazio dedicato alla collezione permanente, una parte che alterni mostre felliniane “ruotanti” e/o mostre d’arte contemporanea. Questo Museo potrebbe diventare prestigioso come il MAXXI di Roma, forse ancor più. Ma, certo, poi, lo deve dirigere una figura di rilievo, un curatore o curatrice con profilo internazionale che sappia agire in autonomia. Non un candidato del PD o un politico trombato alle elezioni. Insisto sul profilo internazionale: bisognerebbe seguire l’esempio del Ministro Franceschini, che ha nominato alcuni direttori-curatori di chiara fama, non necessariamente italiani. Oggi, nel mondo globalizzato, devi avere una formazione internazionale.

Finora a Rimini si è preferito il piccolo cabotaggio di provincia, come l’utilizzo di un Castello rinascimentale a fini di marketing elettorale. La pubblicità sui giornali, italiani e stranieri, non tragga in inganno. Fra un paio d’anni, vedrete, il Museo Fellini ― se non si cambia impostazione radicalmente ― si sgonfierà come un palloncino. Mi dicono che la Corte dei Conti non consentirebbe di spostarlo altrove. Ma chi l’ha detto? Inserito nella Novarese, il Museo decollerebbe. Vorrei tanto ― diciamo fra tre anni ― calcolare le entrate dei biglietti al Museo Fellini, da cui detrarrei le spese di manutenzione di tutta quella roba lì, compresa la piscinetta per pesci rossi che dovrebbe rievocare l’antico fossato rinascimentale (sic!). Sono certo che alla fin della fiera, conti alla mano, un investimento alla Novarese renderebbe molto di più. Sia in termini di immagine cittadina che di introiti finanziari.

Non lo si ripeterà mai abbastanza: è su questo progetto ambiziosissimo che bisogna puntare nei prossimi 5 anni. La volontà politica, come la fede, smuove le montagne. Sono convinto che, nel giro di dieci anni, buona parte dell’investimento iniziale verrebbe recuperato (con le attività culturali e gli affitti sala ai privati). Last but not least: bisogna porsi anche il problema di riportare finalmente alla luce l’anfiteatro romano, prima del prossimo secolo se possibile.


Cosa ci puoi raccontare di Kiev, come ti sei mosso in quella realtà così lontana e oggi così prepotentemente vicina? Che progetti hai per il “dopo guerra” (sperando che ce ne sia uno)?

In soli 18 mesi ho co-organizzato tre mostre d’impatto, la prima su Federico Fellini (mostra degli eredi, a cura di Alessandro Nicosia e Francesca Fabbri Fellini). Francesca, la nipote del Maestro, è venuta a Kiev per l’inaugurazione al Museo del Cinema di Kiev. Ho avuto il piacere di conoscerla meglio, e… siamo diventati amici. Ha rappresentato benissimo Rimini! Pensate che all’inaugurazione volle presenziare il Ministro della cultura ucraino, Tkachenko, amante del cinema italiano. Un’altra mostra (arte contemporanea) con l’Istituto Garuzzo per le Arti Visive di Torino, “Sulla via della seta”; l’ultima con la Società Dante Alighieri: al Museo Khanenko, una bomboniera nel centro di Kiev, abbiamo esposto le illustrazioni ai cento canti della Divina Commedia realizzate da Giovanni Tommasi Ferroni. Oltre a ciò, ho lavorato ― sempre in sinergia con la nostra Ambasciata ― in vari settori: cinema, teatro, musica lirica e jazz, traduzione del libro italiano in ucraino e tanto altro…

Spero davvero di tornare a Kiev, città stupenda – chissà! Vorrei completare anzitutto il programma di traduzioni dall’italiano in lingua ucraina. Avevo in programma, fra gli altri, anche i seguenti testi: La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, il saggio di Stefano Pivato sull’Inno di Mameli e Gli Occhi di Fellini della poetessa Rosita Copioli, Cito questi autori perché sono molto conosciuti a Rimini. La lista è più lunga: alcuni inediti (in ucraino) di Leonardo Sciascia, i saggi di sociologia politica di Luciano Pellicani, un’opera dell’astrofisico Massimo Capaccioli, l’introduzione a Dante di Enrico Malato ecc.


Sei stato un grande amico di Paolo Fabbri, altro riminese scomodo: cosa avete fatto assieme, come lo ricorderesti, a Rimini come a Kiev?

Quanto mi manca! Ogni volta che mi riesce di scrivere un articolo dignitoso, vorrei farglielo leggere per poi discuterne con lui. Paolo è venuto a Beirut, con sua moglie Simonetta, quando dirigevo l’Istituto di Cultura (2015-18). Ha fatto faville, era davvero brillante. Un divulgatore eccezionale, che mai banalizzava. Sapeva adattarsi a ogni contesto, con qualunque tipo di pubblico, in lingua francese e inglese. In breve: un genio. Per oltre un anno ho ricevuto i complimenti dai miei interlocutori libanesi per averlo invitato. Credo che il Sindaco Jamil dovrebbe dedicare a lui la scuola di cinematografia e semiologia annessa al Museo felliniano ricostituito presso la Novarese, quando e se si farà.


Edoardo Crisafulli, Rimini 1964, ha studiato nelle università di Urbino, di Birmingham e di Dublino (University College). Ha insegnato lingua e cultura italiana in Irlanda, in Inghilterra e in Arabia Saudita. Nel 2001 diviene addetto culturale del Ministero degli Esteri. Ha gestito la scuola di lingua italiana dell’Istituto italiano di cultura di Tokyo, e ha diretto vari Istituti: Haifa, Damasco, Beirut e Kiev. Ha pubblicati vari studi e saggi (linguistica, politica). Collabora con L’Avanti! Online, Mondoperaio, il blog della Fondazione Nenni.

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