Quando lavoriamo per conto di organizzazioni umanitarie, oppure per progetti sociali di cui siamo i diretti responsabili, Ayzoh! ha una regola: le storie che riguardano persone o comunità vulnerabili, vanno maneggiate con cura, come se quelle fotografie dovessero diventare parte del nostro album fotografico di famiglia.
Vogliamo che le persone ritratte (2) siano orgogliose dell’immagine che offrono al mondo. E vogliamo che lo siano anche in futuro, quando le loro attuali difficili condizioni ― forse ― non saranno altro che ricordi lontani.
Non solo: qualunque sia la loro condizione ― pur, importante!, senza alterare o abbellire la realtà ― vogliamo catturare e onorare soprattutto la forza, la forza d’animo (preferiamo questa bella parola italiana rispetto a quella più en vogue, “resilienza”) e la spinta verso un cambiamento positivo: qualità che possono essere di ispirazione per tutti.
Nel corso degli anni, progetto dopo progetto, errore dopo errore, abbiamo imparato che per raggiungere questi obiettivi c’è solo un modo: darsi tempo, ascoltare le storie, studiare tutto ciò che serve per capire il perché delle cose e ― soprattutto ― rendere partecipi le persone coinvolte nella stesura e realizzazione del progetto.
In loro vediamo dei resistenti, non delle vittime e, di certo, mai degli “ultimi”, come vengono anche chiamati. Va da sé che, con questa premessa, siamo molto critici verso il modo in cui le persone più vulnerabili ― specialmente se vivono nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo” ― sono spesso rappresentate nella comunicazione di molte organizzazioni umanitarie, aziende e media.
Pubblicità. Progresso?
Contrariamente a ciò che affermano gli “apocalittici”, nel campo della comunicazione pubblicitaria, almeno per quanto riguarda inclusività e rispetto della dignità umana, negli ultimi dieci anni si è visto un reale progresso.
Le migliori agenzie, che sono sempre un passo avanti nel capire i trend in atto nella società, hanno iniziato a proporre campagne sempre più inclusive e i loro clienti ― soprattutto i marchi più innovativi, globali e attenti alla propria reputazione ― si sono adeguati (4).
Ad esempio, campagne pubblicitarie costruite intorno alla oggettivazione del corpo delle donne ― che solo ieri riempivano le pagine dei giornali, gli spot televisivi e i cartelloni affissi nelle strade ― oggi non sono quasi più possibili. Lo stesso avviene con le rappresentazioni stereotipate che affliggono molte minoranze: nelle pubblicità dei migliori brand non sono più ammesse (5).
Questo progresso è dovuto soprattutto a due fattori. Il primo è il sempre maggiore potere d’acquisto delle donne e di molti individui appartenenti alle minoranze, sia etniche che di genere: per le aziende ― che non sono “buone” ma neppure sceme ― queste persone sono diventate consumatori da “coccolare” e non da trattare in modo superficiale o, peggio, offendere.
Il secondo è l’attivismo di alcune minoranze, con la loro grande capacità di mobilitazione intorno alle proprie cause, dovuto soprattutto a un sapiente uso dei social network. Questo fa paura alle aziende, così come hanno dimostrato gli “incidenti” che hanno coinvolto Barilla, Dolce & Gabbana e tanti altri.
Dolce & Gabbana si “scusano tantissimo” dopo uno spot, con protagonista una modella cinese, accusato di essere razzista verso la Cina (e tutti i cinesi) oltre che offensivo nei confronti delle donne.
A cascata, il fenomeno ha raggiunto il mondo dell’informazione, che dalla pubblicità è sempre più dipendente. Anche giornali e televisioni ― come al solito in ritardo rispetto alle grandi agenzie pubblicitarie ― si sono adeguati: hanno preso atto del sempre più grande numero di lettori o spettatori in grado di capire quando i media semplificano la condizione umana attraverso l’uso di immagini scelte solo per dimostrare tesi già costruite, per suscitare risposte emotive a comando e, alla fine dei conti, per generare un profitto.
Quindi, si può dire che, all’atto pratico, questa maggiore consapevolezza nei gusti del pubblico è stata facilitata e accelerata dall’economia ― e dal miglioramento delle condizioni materiali di milioni di persone ― molto più che dalle (sacrosante) battaglie per i diritti civili delle minoranze etniche o di genere.
Però… Questo progresso ha lasciato fuori qualcuno: i “poveri”, quelli che non possono far valere il loro potere d’acquisto, le minoranze incapaci di attivismo organizzato (ad esempio, i Rom), gli abitanti delle periferie più marginalizzate, le comunità più svantaggiate del cosiddetto “Terzo Mondo” (per dire, lo si continua a chiamare così).
E’ a loro ― agli esseri umani che vivono una qualsiasi forma di disagio o marginalizzazione ― che oggi viene riservato il poverty porn (3). Questo avviene sui giornali, nelle campagne di comunicazione sociale delle grandi aziende e, soprattutto, in quelle per la raccolta fondi delle organizzazioni no-profit.
Cos’è il poverty porn.
Per “poverty porn” ― termine già in uso da molti anni ― si intende una tattica di comunicazione utilizzata da organizzazioni no-profit e da enti di beneficenza per ottenere empatia e contributi dai donatori sfruttando l’immagine di persone che vivono in condizioni di indigenza o difficoltà.
Il termine si può anche estendere a molti servizi giornalistici, che pretendono essere di denuncia, o a campagne promozionali di aziende che abbinano il loro marketing a operazioni di carattere sociale (video sotto).
In questi casi l’obiettivo non è ottenere donazioni ma audience, pubblicità indiretta o ― quando si pubblica sui social network ― condivisioni, like e commenti, tutti elementi che contribuiscono al ranking pubblicitario dell’azienda o della testata.
Ecco, per essere chiari, ambedue queste tecniche ― sia che giochino sulla gratificazione che sul senso di colpa del pubblico ― per noi di Ayzoh!, rientrano pienamente nel campo di una comunicazione sbagliata che poco si cura della sacralità di coloro che, in teoria, vorrebbe difendere.
Per scopi di marketing ― ad uso e consumo di altri (donatori, clienti, abbonati ai giornali, etc) ― persone o comunità vengono comunque schedate e incasellate in categorie che nulla hanno a che vedere con l’unicità della loro storia personale e collettiva.
Il poverty porn ignora le vere cause della povertà.
Povertà e/o esclusione sociale sono sempre il risultato di problemi, sia individuali che sistemici, che coinvolgono non solo le circostanze personali, ma interi sistemi sociali, economici e giudiziari (che spesso operano per umiliare e criminalizzare i “poveri” oppure per perpetuare la loro condizione).
Tuttavia, la comunicazione di molte organizzazioni umanitarie ― non sempre ma spesso ― definisce la povertà semplicemente come una condizione risultante da una semplice mancanza di risorse materiali.
C’è una ragione per questo: le organizzazioni, in concorrenza tra loro, hanno sempre più difficoltà a sensibilizzare il pubblico in un mondo ormai completamente saturo di immagini. Semplificare i problemi, magari mostrando immagini di estrema disperazione, può sembrare l’unica soluzione per provocare una reazione in individui con una soglia di attenzione sempre più ridotta.
Ci si riduce quindi a mostrare situazioni grottesche, raccontando storie individuali di disagio che il pubblico può illudersi di riparare facilmente attraverso una semplice donazione. Con queste semplificazioni si tenta quindi di rendere comprensibili, consumabili e facilmente “curabili” esperienze umane estremamente complesse.
Il poverty porn porta alla elemosina, non all’attivismo.
Il poverty porn richiede donatori, non sostenitori. Il poverty porn non può generare una comprensione più profonda della questione della povertà; tanto meno può stimolare riflessioni e azioni sui necessari cambiamenti strutturali che devono verificarsi per affrontarla efficacemente.
Il poverty porn ci dice che il problema è tutto nelle scarsità di risorse materiali e quindi la povertà può essere affrontata attraverso una semplice telefonata, un click su Paypal e una piccola donazione mensile.
Per essere chiari, le donazioni in denaro non sono il male: anzi, possono davvero avere il potenziale per un impatto significativo e positivo. Questo avviene quando vengono gestite da organizzazioni che affrontano la povertà in modo sostenibile, lavorando insieme alle comunità coinvolte per produrre cambiamenti sistemici, economici, politici e sociali.
Tuttavia, il più delle volte, perpetuano ideologie pericolose percorrendo una strada che fa più male che bene. È una strada dove i “poveri” sono sempre beneficiari indifesi e dove i donatori sono i salvatori. In questa dinamica, ai donatori viene detto che sono gli unici con la capacità di fare la differenza.
Nulla viene invece detto su ciò che potrebbe succedere se si camminasse al fianco di coloro in difficoltà per sostenere la loro capacità intrinseca di essere i veri agenti del cambiamento nelle loro stesse comunità. Lo status quo ringrazia.
Il poverty porn travisa i “poveri”.
Nelle immagini dei fotografi che lavorano per organizzazioni umanitarie la povertà è comunemente associata a sporcizia, stracci e impotenza. Oppure, nel tentativo di cambiare stile narrativo, si usa una tecnica opposta: mostrare persone sorridenti, felici di ciò che hanno ricevuto e della loro nuova vita, possibile grazie alla generosità dei donatori.
In realtà, la povertà ha molte facce e nessuna soluzione semplice. La povertà non ha solo le sembianze di un bambino affamato con le mosche sulla faccia o di un senzatetto che dorme sui cartoni in un anfratto della Stazione Termini.
La povertà è nei nostri pulitissimi condomini, è nella vita di chi ci porta la pizza a casa, in quella di moltissime “Partita Iva” o in quella dei commessi così gentili che ci assistono nelle boutique di lusso del centro di Rimini. È dappertutto, sempre più crescente. Sempre più nascosta.
La povertà è olistica, colpisce l’intera persona e non solo ciò che si vede o che ci illudiamo di vedere. Infatti, molte ricerche dimostrano come “aiutanti” e “aiutati” definiscono la povertà in modo molto diverso: i benefattori associano la povertà con la sofferenza fisica e la mancanza di risorse materiali.
Chi invece la vive davvero usa altre parole: vergogna, senso di inferiorità, impotenza, umiliazione, paura del futuro, disperazione, depressione, isolamento sociale e mancanza di rappresentazione. In definitiva, i primi ci parlano solo del denaro mentre questi ultimi ci parlano della dignità umana.
Il poverty porn inganna sia gli “aiutanti” che gli “aiutati”.
Uno dei maggiori problemi con il poverty porn è che ha un incredibile capacità nel dare potere alle persone sbagliate. Lo fa in due modi.
In primo luogo, illude i donatori. Gli dice che ― grazie alla loro posizione nella società e alle risorse di cui dispongono ― hanno la capacità di essere i salvatori di individui o comunità vulnerabili (di cui, normalmente, non sanno nulla).
Per questo ― mentre perpetua un pericoloso paternalismo ― fallisce miseramente nel generare conoscenza, vera empatia e una spinta al cambiamento da condividere con i fratelli e le sorelle di altre parti del mondo (ma anche della loro stessa città o del condominio in cui abitano).
In secondo luogo, il poverty porn debilita i beneficiari degli aiuti. Lo fa definendoli in base alla loro sofferenza e privandoli delle componenti essenziali di una vita umana degna di essere considerata tale: dignità, azione, autonomia e un potenziale che potrebbe essere illimitato.
Il poverty porn funziona, ma non cambia nulla.
C’è una ragione per cui questa rappresentazione della povertà è diventata così popolare tra le organizzazioni no-profit. Quando si tratta di redditività, questo genere di comunicazione mantiene quasi sempre le sue promesse.
Molte ricerche di mercato, svolte per conto di alcune grandi organizzazioni umanitarie, hanno dimostrato che questi messaggi funzionano nel produrre risultati finanziari rilevanti o comunque più veloci delle possibili alternative.
In effetti, è più probabile che il pubblico faccia una donazione quando un annuncio mostra un bambino che soffre, piuttosto che felice, ben curato e in salute. Ciò solleva una domanda importante: la redditività del poverty porn ― o delle sue varianti ― vale la perpetuazione di false ideologie e stereotipi?
Io dico no. Chiunque lavori sul campo sa che il cambiamento nelle comunità marginalizzate ― se deve essere sostenibile e giusto per tutti ― non è mai legato all’ammontare della somma delle donazioni in denaro provenienti dall’esterno. Il vero cambiamento è sempre provocato dall’auto-determinazione economica, sociale e culturale.
Questo vuol dire che non possiamo imporre loro i nostri costrutti, spesso inadeguati e densi di ignoranza nel comprendere la vera natura della loro condizione. Se vogliamo contribuire realmente alla trasformazione delle comunità più svantaggiate, in modo che siano economicamente e socialmente giuste, dobbiamo invece essere al loro fianco per amplificare la loro voce e le loro istanze.
Questo rappresenta la grande differenza tra un programma di inconcludenti aiuti ― o bonus una tantum ― e un movimento di vero cambiamento. E questo ― come spiega Federica D’Alessio nella nota seguente ― è anche ciò che distingue pietismo ed elemosina da una vera solidarietà in grado di unirci ai nostri fratelli e alle nostre sorelle.
Per usare nei confronti degli altri un’autentica solidarietà è necessario liberarsi di due vizi mentali: il pietismo da una parte e il complesso del “salvatore” dall’altra.
La solidarietà è un sentimento “dignificante”, per usare anche oggi uno di quei concetti che in italiano esistono solo in versione astratta e mummificata, mentre in inglese vivono di vita vera.
Comporta reciprocità, rispetto e riconoscimento del punto di vista altrui, comporta valutazione e negoziazione delle rispettive posizioni: io sono qui, tu sei lì, siccome mi sento solidale mi sposto e ti vengo vicino, non sono più dov’ero prima, ora sono esposto ai venti, allo scoperto anch’io; spostati anche tu adesso, ecco, riparami mentre io riparo te; ora camminiamo insieme.
L’elemosina si fa a distanza, a chiacchiere, rimanendo dove ti trovi. Non ti cambia la prospettiva, non rinegozi con nessuno le tue posizioni, non sposti nessun equilibrio, non ti esponi a nessun vento.
Va così tanto d’accordo con i privilegi, è così solidamente attaccata allo status quo che è proprio nei salotti caritatevoli che ci si può permettere di dare più spesso e con piacere ospitalità alle lamentazioni vittimiste contro il privilegio, utili solo a vedere se per botta di culo qualcuno di buon cuore ti spalanca la via delle briciole o meno.
La solidarietà è un sentimento rivoluzionario, in grado di abolire sul serio lo stato di cose presente, perché rimette in discussione il potere. Ma pochissimi la provano, pochissimi sanno davvero cosa sia. I più fanno discorsi caritatevoli, dall’alto verso il basso, con quel gran gusto di parlare per categorie.
Non hanno il coraggio di guardare negli occhi e ascoltare cosa hanno veramente da dire, in carne e ossa, quegli esseri umani “non privilegiati” di cui pure si riempiono tanto la bocca.
Note aggiuntive.
1. Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Emily Roenigk. Emily scrive su Huffington Post Canada e lavora nelle comunicazioni sociali e digitali per World Relief.
2. Le fotografie che illustrano l’articolo sono strettamente legate a progetti che hanno coinvolto Ayzoh!. A parte una di esse ― dove comunque il soggetto non è riconoscibile o identificabile in alcun modo ― sono state realizzate con la piena consapevolezza dei soggetti coinvolti o, nel caso dei minori, dei loro genitori o legali rappresentanti.
3. In Ayzoh! siamo nemici degli anglicismi usati a sproposito (ad esempio, “storytelling”). Tuttavia, riteniamo che “poverty porn” sia un termine intraducibile in italiano (così come i tre termini usati nelle note seguenti) e per questo, nel corso dell’articolo, lo abbiamo mantenuto in inglese.
4. L’altra faccia di un mercato pubblicitario (generalmente) più attento su certe tematiche è la facilità con cui, oggi, è possibile creare scandali ad hoc per far parlare di sé, di un marchio o di un prodotto. Questo rientra nelle tecniche di guerrilla marketing e, come ci hanno insegnato Oliviero Toscani e Benetton, non è nulla di nuovo. Ma, se in passato questa tecnica poteva avere un senso per dare visibilità a temi controversi di cui ― per bigottismo e conformismo ― era preferibile non parlare, oggi denota solo la scarsità di idee (e di risorse economiche) di chi la mette in atto: raramente funziona.
5. Rispetto, inclusione e giustizia sociale hanno poco, o nulla, a che vedere con le esagerazioni delle ideologie “identitariste” (o, per semplificare, woke) ― fenomeni che sfociano nella cosiddetta cancel culture ― che noi di Ayzoh! riteniamo auto-referenziali, densi di privilegio (no, non è affatto un controsenso), controproducenti (per chi vuole un cambiamento reale, equo e sostenibile), violenti e autoritari: quindi, da contrastare.