Ricordo come fosse ieri quel lungo pomeriggio del 20 luglio 1969 davanti al televisore in bianco e nero di casa mia a Rimini quando Tito Stagno fece posare a ciascuno di noi spettatori il piede sulla luna. Avevo già 28 anni e il televisore era posizionato proprio nell’angolo della stanza da cui avevo assistito, una diecina di anni prima, all’ultimo sussulto di vita di mio padre. Se le stanze delle nostre case potessero parlare!
Ricordo che pensai: “Ecco, ho la fortuna di assistere all’inizio di una nuova era”. Come sempre, la profezia era sfocata, una nuova era iniziata davvero non fosse che per le insinuazioni poco dopo apparse che quell’allunaggio fosse la prima fake news della storia, che non fosse mai realmente avvenuto. E a dimostrazione, nel trascorrere degli anni, si sussurrava che fosse strano che dopo le 6 missioni Apollo che avevano portato ben 12 astronauti americani a passeggiare sulla Luna non ci fosse più stata una settima, una ottava, nona, centesima missione lunare.
Al contrario, dall’ultima Missione di Apollo 17, dell’11 dicembre 1972 è calato il sipario sullo spazio proprio mentre io iniziavo a Firenze la mia “Mission” editoriale, un viaggio interstellare verso il mondo disastrato delle Stragi dì Stato, dove le fake-news si sprecavano. In effetti ho dovuto attendere più di mezzo secolo per assistere ai ridicoli duelli cino-russo-americani, o peggio ancora fra Elon Musk e Jeff Bezos su chi ha il razzo più lungo e piscia più lontano. Come facessero gli americani ad arrivarci così facilmente sulla Luna, cinquant’anni prima, non so proprio spiegarvelo.
Posso solo dirvi il filo che facevo da ragazzino per le prime fionde tecnologiche in metallo col para-pollice in cuoio, dopo quelle costruite col temperino, in lunghi pomeriggi interi di lavoro. Poi, tiravamo biglie di piombo contro il cielo.
Uno ad uno, i protagonisti di queste storie se ne vanno. Le loro ombre si mescolano a quelle di Ulisse e di Gilgamesh, la conquista della Luna alla scoperta dell’America o allo sprofondamento di Atlantide, un susseguirsi di fatti, di diluvi universali, di Torri di Babele, come altrettante quinte di un teatro in cui Dio ha posto l’uomo a recitare più o meno bene la sua parte , sempre falso e vero come falso e vero è sempre un attore su un palcoscenico che ritiene suo.
La nostra vita è costellata di misteri, non ci fa più nessuna impressione non sapere chi ha messo la bomba a Piazza Fontana, figurarsi se può preoccuparci il non capire quanto di questa pandemia sia vero o falso, e se il compianto Tito Stagno, che non ho mai conosciuto, abbia esultato solo per un sogno.
Mentre scrivo questo appunto mi giunge invece la notizia della morte di un amico, Paolo Graziosi, per Covid.
Non so ancora se la diagnosi perentoria riportata dai media sia vera o falsa. E in fondo poco importa. Aveva 82 anni. Eravamo amici per la pelle fin dall’adolescenza, quando passeggiavamo per ore sulla spiaggia invernale parlando di Dio.
È stato a pranzo da me con Elisabetta, sua moglie, profittando di una tournée teatrale, non tanto tempo fa, portandosi dietro una bottiglia di gin, per paura che non ne avessi in casa. Pasteggiavano solo a gin, loro, come io a sangiovese.
Per un attimo aveva accarezzato l’idea di fare un monologo con i testi di Fellini, così come aveva fatto coi testi di Ionesco a un Meeting. Non ci fu bisogno dei miei scongiuri appassionati perché abbandonasse in fretta l’idea.
La misura attoriale predominava sempre e su tutto in entrambi; ma Federico recitava sé stesso nei suoi film, diventava in senso stretto un suo personaggio; Paolo invece era come se recitasse la sua vita come un ruolo di secondo piano e diventasse autentico solo nei panni di Aldo Moro, o di Leopardi, o di Mercuzio o dei tanti personaggi a cui prestava volto e anima. Spero che Rimini gli renda un omaggio degno.