Come si fa a scrivere un pezzo, così? Io poi? Sembra facile, basta dire in due parole chi sono, o sono stato, o almeno dirne una parte. Anche se non sono il tipo.
Parlo viserbese perché nella mia famiglia tutti parlavano in dialetto tra di loro e con i loro conoscenti. Tutta la mia infanzia (sono nato nel 1970) è passata tra gente da dialetto, a Viserba.
Gente che naturalmente non aveva studiato, perché erano i tempi nei quali la lingua distingueva tra chi aveva ricevuto un’educazione e chi no. In tempi e luoghi diversi non è stato così. Alessandro Manzoni parlava correntemente solo francese o milanese: l’italiano era per lui un miraggio, per quanto colto fosse.
Ma in tempi e luoghi di Romagna negli anni ’70, in tutti i posti che frequentavo, c’era una cultura ed una lingua sola. Potevi andare a spiaggia tra i pescatori e accodarti a tirare e’ spuntèl, potevi andare dagli ortolani a cogliere un po’ di insalata (dai nostri parenti viserbesi s’intende, Brancoun, Pasuloin), oppure dagli amici di Santarcangelo, dai parenti contadini al Compito o a Lunzèn, tra le vigne e le turnadùri coltivate a mezzadria, col trattore e tutto quanto (altro che orti viserbesi).
Ma il punto è lo stesso: dove andavi ci si capiva perfettamente. Anche coi parenti di Ravenna, anche con quelli di San Marino. Anche dalla zia di Rimini. Il posto più lontano per un viserbese. Noi andavamo a Rèmni, ma lei no, lei stava a Rémin. Che è tutta un’altra cosa, chiaramente…
Emigrato intellettuale c’entra apparentemente poco con questo mondo, in effetti. Così come il greco antico c’entra poco con il romagnolo. Gli intrecci di una vita però, almeno quando è abbastanza lunga che la parte maggiore sta dietro di noi, compongono sempre delle forme imprevedibilmente strane e a priori imprevedibili, mettendo insieme quelle tante contraddizioni di cui è fatta l’esistenza di ciascuna e di ciascuno.
Ho vissuto per oltre dieci anni in Svizzera, sono quindi un emigrato vero, sono stato uno dei “cervelli in fuga” ben prima che questa definizione venisse coniata. Lasciare l’Italia per tanto tempo mi ha tolto molto e mi ha ridato altrettanto. Ho avuto la possibilità di studiare in un modo che in Italia credo proprio non mi sarebbe stato possibile (ed è un eufemismo, se ve lo stavate chiedendo).
Adesso in realtà non sono più un vero emigrante, almeno tecnicamente, perché abito in Italia e lavoro a Roma (per la precisione insegno alla Sapienza). Ma è l’esserlo stato che mi ha cambiato nel profondo. Soprattutto perché ho conosciuto altre persone, altre mentalità. Perché ho visto con occhio nuovo quello che ero io e quello che era quel mio mondo. E guardare le proprie cose con una prospettiva diversa è l’esercizio più difficile, benché praticato da sempre.
Un esercizio che a volte ti è imposto, o che a volte devi importi se vuoi capire, ma che alla fine scopri essere una necessità. Ed è tutto questo che mi ha reso probabilmente più romagnolo adesso di quando me ne sono andato. Perché ora so chi sono. Sono viserbese anche se non abito più a Rimini. C’è forse qualcosa di meglio?