Elegantissimo nel suo maglioncino blu, emozionato come alla tesi di laurea mentre parla di sé e della sua “storia”, tormentandosi le mani, non sapendo bene se guardare in macchina come si dice in gergo o far finta di niente, con quel suo sorriso da eterno ragazzo che non riuscirà mai, per sua fortuna, a tramutarsi nel ghigno dell’imprenditore di successo, eccolo davanti a me, Maurizio Focchi, appollaiato sulla poltroncina della sua sala riunioni, pronto per l’intervista.
Come lui sembra impreparato e timoroso del rituale mediatico, mentre i due fotografi piazzano i loro obiettivi, anzi, ancora più impreparato e imbarazzato di lui sembra l’intervistatore. Eppure, sono amici da almeno trent’anni da quando Maurizio, medico laureato da poco, aspirante psichiatra, si trova catapultato per l’improvvisa morte del padre a capo della piccola azienda famigliare. E qui comincia la storia.
Era un imperativo categorico accettare la scommessa, dice, e del resto non ho mai realmente indossato il camice; non ho nostalgia della psichiatria… Il naso gli si allunga un po’, ma forse è solo l’effetto di un raggio di sole che entra prepotente in questo palazzo di vetro che è il suo ufficio, in questa giornata di primavera precoce.
Mi sembra ieri che lo andavo a trovare nel suo vecchio ufficio sulla Via Emilia e gli portavo a visionare le bozze del libro di Valentina Cultrera sugli attacchi di panico che Maurizio aveva praticamente estorto alla giovanissima autrice appena fatto il suo acting-out al Maurizio Costanzo Show. Mi ero ripromesso (e forse gli avevo persino garantito) di non parlare dei suoi trascorsi “editoriali”, non fosse che per evitare ogni possibile conflitto di interessi.
Ma non posso fare a meno di sbugiardarlo ― visto che ho la penna dalla parte del manico ― circa la sua vocazione psichiatrica: aveva un intuito pazzesco, Maurizio, per i molteplici percorsi del disagio psichico, un fiuto da editore di classe.
Nessuno aveva ancora mai sentito parlare, all’epoca di “DAP” ovvero Disturbo da Attacchi di Panico, ci voleva quel “racconto” in prima persona della ragazzina che ne aveva sofferto per metterlo a fuoco. Puro intuito che lo porterà molto presto a dar vita a “Cittadinanza” la sua faccia da Mr.Hydes (o dr Jekyll, a secondo di come lo si guarda), insomma la doppia vita di Maurizio Focchi.
Cittadinanza è infatti l’amante segreta di Maurizio, progetti di riabilitazione psichiatrica e di intervento psicosociale nei Paesi a basso reddito, recita il sito web della onlus, per fortuna che non aveva nostalgia della psichiatria. Ecco, mette le mani avanti…
…fare grattacieli di cristallo a Londra, New York, Manchester, Singapore, per i mega ricchi; e occuparsi delle persone con gravi disturbi psichici nelle periferie del mondo, a Panama come in Vietnam, in Serbia come in India, è il mio modo per tenere in equilibrio le mie identità di genere!
All’inizio quasi mi vergognavo della mia seconda identità di Cittadinanza, la tenevo a distanza (un travestimento culturale, mi viene da pensare, se non addirittura religioso, non fosse che Maurizio è la persona più “laica” che io conosca – ndr). Poi l’ho “accettata” e fatta mia, oggi non me ne vergogno più.
Insomma mentre Jeff Bezos e Elon Musk giocano a chi arriva prima sulla luna, come bambini che dopo aver sciupato la palla della Terra presa a calci ne vogliono un’altra altrove, nello spazio, Maurizio quasi di nascosto montava servizi di fisioterapia a Nairobi in Kenya o a Vellore in India per bambini con disabilità psicofisica. Poiché, credo, non lo sappia bene neppure lui, chiederglielo è inutile.
Sa bene, invece, che proprio questo tratto caratteriale della sua romagnolità, questo essere curioso degli altri, questo gusto di relazionarsi, ha fatto la differenza con i suoi competitors.
Quando parte a raffica a parlare di Renzo Piano o delle altre archistar con cui ha fatto progetti si vede proprio che “gli altri” gli piacciono, trasuda ammirazione quando racconta il fascino di quello che schizzando un bozzetto sul tovagliolo di carta in un ristorante e ha saputo riassumere in pochi tratti la totalità del progetto che aveva in pancia più che in testa.
Ecco, dice, noi siamo stati capaci di piegarci, come azienda, ai loro sogni, di assecondare le visioni di questi grandi architetti, rinunciando a ogni standardizzazione, a ogni meccanizzazione robotizzata, da veri artigiani, quali siamo.
Pensavo che fosse solo una boutade da intervista fino a quando non ci ha accompagnato personalmente in giro per l’immenso capannone, in qualche modo deludente per chi conosce la Focchi Group Spa solo dal suo book fotografico.
Mi sembra una realtà ancora da fabbro ferraio, o da vetraio sottocasa, un po’ più grande ― molto più grande ― dove le celle di quell’alveare vertiginoso di vetro che saranno poi alla fine, appese miracolosamente, fissate le une le altre da dentini quasi invisibili, sono ancora qui: stese, spoglie, nude, di alluminio, silicone, tanto silicone, con le cento ― letteralmente ― minuscole componenti, frutto di una ingegneria adattata caso per caso alla bisogna.
Insomma una sartoria su misura, una meticolosità certosina delle sue api operaie, realizzata con strumenti che quasi rasentano il ridicolo, come la paletta da forno per spalmare il silicone invece della torta al cacao.
Ecco, così mi appare la “mitica” fabbrica dei sogni di cristallo: una sala parto, con chirurghi e infermieri chini sul paziente per ore, finito uno sotto un altro, panno in mano per pulire il beccuccio da cui schizza il silicone ad altissime prestazioni, con un nome che non ricordo. Niente di fantascientifico come mi aspettavo…
Mi immaginavo linee produttive piene di robot come quelli della pubblicità, esclamo, quegli androidi che decuplicano il lavoro umano, qui non si vede una strumentazione digitale neanche a cercarla col lanternino, com’è possibile? Mi pare ci rimanga un po’ male, Maurizio, ma qui il fattore umano è centrale.
Anzi Walter ― dice ― dovresti mettere a lato delle catene di montaggio, la gigantografia con la progressione del lavoro che gli operai e le operaie (sì, parità di genere!) stanno facendo man mano che la loro cella riveste il grattacielo. Falla come ti pare ma è giusto che i ragazzi vedano dove va a finire il loro lavoro ― esclama Maurizio ― Capito Walter?
E’ così che si contraddice Carlo Marx, non ci si spossessa del proprio lavoro. Qui, Walter ― il giovane coordinatore controllo qualità operativa ― dice continuamente noi, noi, noi. Qui tutti indistintamente, o quasi, danno del tu al “padrone” e lui ricorda i nomi di (quasi) tutti.
Si, devo stare molto attento a non fare della agiografia, vuoi che non ci siano conflitti, di sicuro non è tutto cristallo quello che luccica, come questa cellula al suo punto di arrivo, pronta per essere spedita dopo una pulizia meticolosa.
Quando compri una macchina nuova saresti contento se te la consegnassero tutta impolverata e con le ditate anche se sarà così dopo poche ore, una volta montata al trentesimo piano. Non sarà a caso che un giorno Maurizio ha caricato tutti i suoi in “gita aziendale” e li ha portati all’ultimo piano del grattacielo di… a Milano per far loro vedere dal vivo l’opera delle loro mani.
Certo, se cascasse un modulo (avevo azzardato questa ipotesi in uno scenario apocalittico), saremmo fritti, dice. Io non ci dormirei la notte. E’ tranquillo invece Walter, che ci mostra i suoi “rudimentali” ma a quanto pare efficientissimi sistemi di controllo, trazione, punto di rottura e tutto il resto, quando si trova un difetto, anche minimo, si smonta tutto e si ricomincia, ma il fattore umano è e resta il 100% del plus aziendale e del suo rischio. Poi usciamo a vedere il campionario, le cellule appese come tanti quadri d’autore all’esterno del capannone e nessuno può trattenere un oh di meraviglia.
Basta distrarsi, torniamo all’intervista… Superata la timidezza iniziale Maurizio è un fiume in piena, Rimini vista da New York, Londra e la realtà inglese, la più attenta alla innovazione tecnologica e alla meticolosità costruttiva, chi l’avrebbe detto, sì, proprio qui ho avuto le soddisfazioni maggiori.
L’hangar dell’aeroporto di Londra, l’incredibile Atlas Building, il St. Mary Axe, e poi via, le torri del Deans Gate Square, “un esperimento abitativo interessante”, a Manchester, come dire il grattacielo come soluzione possibile di una pianificazione urbanistica che tenga la gente in centro, roba da ridere in tempi cui il concetto stesso di pianificazione urbanistica sembra un reperto fossile sepolto dalla speculazione.
Ma che serve fare qui l’elenco impressionante delle cose realizzate? Basta aprire il sito web della Focchi Group Spa o fare un salto nella sua sede di Santarcangelo caratterizzata proprio dalle gigantografie delle sue principali realizzazioni.
Poi, la decisione non scontata di far rotta su New York dove con un po’ di strizza realizza il 40 Tenth Avenue dello Studio Gang, che col suo effetto optical, fa girare la testa solo a guardarlo. E in Italia? Beh, l’Allianz Tower di Milano non è male. Il tutto fra una presidenza degli industriali riminesi e una mangiata in trattoria Ai Galletti di Santarcangelo. Con una nonchalance che rasenta l’incoscienza.
Ma l’incoscienza vera sembrano averla piuttosto i riminesi, con il loro povero e grigio grattacielo che pare ululare, quando tira vento, come in una favola di Tonino Guerra, “Ffffffocchi! au Secours, help! Tot ma ‘jelt e mu me gnint?”. Ma tu ti senti riminese? Si certo, ma mi sento più riminese quando sono Londra che quando sono qua. Si chiama sindrome di Fellini, la Rimini di Amarcord è più bella di quella reale. Basta aprire una brochure della Focchi Group per capirlo:
…mentre inseguiamo nuove sfide, mentre collaboriamo per cambiare e migliorare il panorama delle metropoli, siamo noi stessi chiamati a cambiare, a migliorare, a rinnovarci. Un tempo le mura racchiudevano i centri abitati, isolando la popolazione.
Oggi i grattacieli sono le “nuove città”, aperte al mondo con la loro trasparenza. Gli involucri che ogni giorno siamo spronati a realizzare, mettendo alla prova le nostre competenze e richiamando le nostre energie, sono la pelle di questi edifici. Pelle viva con funzioni di controllo, per il risparmio energetico e la regolazione del comfort ambientale.
Non sarà direttamente Maurizio ad aver scritto questo testo, ma dentro c’è tutta la sua filosofia di vita, la sua etica, la sua religione. Proprio così: quando contempli dall’alto di un “tuo” grattacielo il panorama circostante ti senti un dio? No, un dio no, ma mi piace, mi fa sentire bene. Mi piace la bellezza. Un grattacielo di vetro e una capanna africana si assomigliano per la loro opposta bellezza.
Ecco chiudiamo le cineprese e le macchine fotografiche nelle loro custodie , io non ho nulla da chiudere, neppure uno straccio di appunto. Ma tutto è registrato nel cuore. “Mi sono divertito”, trovo questo SMS in serata, di ritorno a casa, mentre rimugino su questo viaggio dentro la meraviglia dell’architettura e la bellezza di un bambino etiope che Maurizio, in una foto, tiene sulle spalle.
Sul momento mi pare un commento “stonato”. Ma come! Tutto qui? Ma forse ha ragione Maurizio, basta aggiungere una parolina, a piacimento: mi sono divertito a vivere, mi sono divertito a creare, mi sono divertito a servire la creatività altrui , mi sono divertito a relazionarmi con te, con voi. Beh, anch’io Maurizio mi sono divertito, a ottant’anni, a starti dietro in questa galoppata.