Ho come la sensazione che la “cultura” – per come la intende uno della mia generazione, cioè qualcosa di pervasivo, un humus fecondante, un modo di guardare la realtà, anzi un modo di essere – sia scomparsa, svaporata come gli sbuffi delle nuove fontane di piazza Castello, tramontata oltre l’orizzonte della civile (o incivile) convivenza.
Mi pare trattata come un virus da controllare con mascherina e vaccinazioni di massa, ben rinchiusa nei recinti dei “supplementi” dei quotidiani, costretta nel paio di format televisivi a audience vicina allo zero, un optional per intellettuali incalliti, una generazione di vecchi che si contendono lo Strega come fosse una gara podistica, le vendite come traguardo.
I giovani, fuori. Coi loro spritz, il loro curatissimo taglio di capelli, le scarpe firmate, i ritrovi nei bar o ai crocicchi delle strade coi tavolini che invadono le carreggiate. Di cosa parlano? Cosa li appassiona? Che film vedono? Hanno mai preso un libro in mano?
Sono tribù con “rituali” propri, bande con valori e codici di comportamento che paiono ben codificati, ma sconosciuti al mio mondo, il mondo degli adulti, anzi dei vecchi. “Vecchio!” è un epiteto, un insulto, una derisione razzista. Alcune bande giovanili prendono sempre più spesso derive violente, come nei film americani. Giornali e TV registrano gli episodi più clamorosi, poi subito archiviano, resettano, dimenticano. Un mondo alieno di farfalloni semi-analfabeti o, per dirla col compianto Paolo Fabbri, un universo di “luogo-comunisti”.
Il luogo comune è l’opposto della cultura per come l’ha intesa la mia generazione : sostituita dal cinismo, dal disincanto, dalla rinuncia a credere in nulla che sia “tangibile”, toccabile, palpabile, godibile, gustabile. Per questo i ristoranti sono diventati le nuove chiese, mete di pellegrinaggi errabondi.
Il linguaggio stesso perde parole, alopecia dell’anima: ne servono poche per dire poco. Alopecia potrebbe essere una salsa, inutile citare Oriana Fallaci. Ma questo, proprio questo, viene bollato come “discorso da vecchi”. Intendiamoci: non ho nulla contro i giovani, non ho mai creduto ai “generi” che ingabbiano: giovane, vecchio, LGTBQ. C’è l’ho con chi ha “voluto” che si arrivasse a questo, con chi ha disinnestato la marcia della cultura, lasciando la macchina sociale in un “folle” perenne. Spingi sull’acceleratore dei desideri e non vai da nessuna parte. Fughe da fermo, recitava un bello spettacolo di San Patrignano per descrivere i nuovi orizzonti della droga.
La politica si occupa di tutto tranne che di questo. La cultura è il grande tabù, il suo cadavere è imbalsamato nelle Biblioteche, la sua memoria ben allineata su scaffali inaccessibili.
Avete mai sentito parlare di cultura in un Consiglio Comunale? Il sindaco Gnassi aveva la parola “cultura” sempre in bocca, ma intendeva altro, la modernizzazione urbana, la consacrazione dello scrittore, o dello chef, à la page. Quella parola diventava addirittura bestemmia quando violentava Castel Sismondo facendone una galera per Fellini.
Che fare? Si domandava Lenin.
Bella domanda. Una domanda senza risposta apparente che non sia l’apologia del perdente.
I lungomare pedonalizzati, le nuove rotonde, la cultura del fare, sono solo favolose maniere per distrarre i paralitici del cuore, non servono a “capire” il senso della realtà in cui vivono.
L’estate finalmente alle porte ci stenderà sui lettini coi nostri abbronzanti e se va bene con un giallo in mano. Il pigro ritmo dei bagnanti fa il paio con il frenetico attivismo degli imprenditori dei bagni e dei bar. Per gli uni e per gli altri non c’è tempo per pensare. La cultura se ne sta all’ombra.