Il provincialismo è fatto anche di questo, nel farsi strateghi di conflitti veri come fossero battaglie di Risiko, mentre per chi li vive sono lacrime e sangue, e hanno radici profonde, come quelle di un tumore.
Dicevo timidamente a un mio figlio, vergognandomi, che di questo immenso territorio che oggi ci viene quotidianamente presentato dai media con mappe corredate di carriarmatini e frecce colorate, saprei a malapena distinguere la vera Ucraina dall’indistinto territorio colore lilla, che dal Baltico al Medio Oriente, confinando con gli Urali e l’Afghanistan, disegna l’immaginario collettivo della sua versione Risiko.
Se non fosse questo il momento sbagliato né il contesto giusto ci sarebbe da ragionare parecchio sul valore diseducativo di un gioco che da oltre mezzo secolo è entrato prepotentemente le case di mezzo mondo.
Ma è un fatto che gli umani vivono chiusi nelle rispettive aree geo-politiche come in altrettante bolle colorate non comunicanti fra loro, se non per stratta contiguità o per occasionali flussi migratori. E per concentrazione di carri armati.
Se un professore riminese di liceo chiedesse ai propri studenti qual è la moneta in uso in Ucraina, dubito che qualcuno saprebbe rispondere: la grivnia! senza aver prima rapidamente consultato Google. E solo Odessa e Crimea ci dicono forse qualcosa per l’evocazione del lontano ruolo degli italiani in quelle lontane regioni.
Eppure, una qualsiasi delle nostre città italiane ed europee pullula di badanti ucraine emigrate nel corso degli anni, ma questo non ha acceso in noi indigeni alcuna curiosità sulla fonte di quel flusso migratorio e sulle sue ragioni.
Chiusi nel nostro egoismo provinciale non ci siamo accorti che proprio lì stava per innescarsi un potenziale conflitto mondiale, distratti dai blindati francesi concentrati in Africa e da quelli americani lungo la frontiera messicana per tenere sotto scacco la facilmente controllabile America Latina. Ecco, questa è la nostra colpevole incultura di Paesi ricchi e ciechi. Chi ha figli in età scolare sa come sbuffino all’ora di Storia e Geografia, un binomio colpevolmente poco trafficato.
Mi ha chiamato una amica ucraina proprio mentre in TV passavano le immagini delle code infinite di auto incolonnate in fuga da Kiev: “Vedi, lì c’è mio figlio con la sua famiglia, che cerca di raggiungere il confine ungherese, l’unico varco ancora aperto”.
Dove diavolo sarà il confine fra Ungheria e Ucraina, come saranno le strade, le pompe di benzina saranno rifornite? Mi sento un verme a non sapere che il valico di frontiera si chiama Astely-Beregsurany. Cerco ansiosamente su Google, dispiego mappe satellitari: che la guerra serva solo a conoscere meglio la geografia dei luoghi in cui si combatte è vagamente scandaloso.
Eppure voglio capire dov’é che sta viaggiando il padre del ragazzo che, devo immaginare, è riuscito a svincolarsi dalla morsa impressionante delle macchine in fuga: se va tutto bene trasborderanno, con la sua famiglia e due valige, e nel giro di tre giorni saranno in Italia dove i loro genitori hanno lavorato vent’anni per pagar loro la casa ora abbandonata alle bombe e ai saccheggi. Doppiamente fortunati, comunque. Ma tutti gli altri?