La prima cosa che si può dire dello stupefacente titolo ― INVANO ― che Filippo Ceccarelli ha scelto per descrivere in sole 1000 pagine “il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”, è che paradossalmente prima ancora che al nostro Paese (Non assumes annales Patriae tue in vanum), quell’avverbio va applicato al ciclopico lavoro del suo autore.
La seconda cosa è che questi Annali raccolti da un giornalista relativamente giovane per aver vissuto in prima persona, poi raccolto, le grigie cronache politiche di mezzo secolo, hanno il sapore e la straordinaria piacevolezza di un vero romanzo, anzi, di un grande “romanzo della politica”.
La terza cosa, quella che maggiormente mette in crisi un lettore di una certa età, è che fa spavento la quantità di eventi cui abbiamo assistito da spettatori più o meno consapevoli e attenti; e di come li abbiamo sistematicamente espulsi dalla nostra memoria con una rapidità da ritmo biologico defecatorio; come dire “davvero abbiamo vissuto invano se poi tutto finisce nella fossa”.
Ecco, invano abbiamo divorato quella enorme quantità di avvenimenti, invano ci siamo seduti a quella tavola riccamente imbandita dalla Storia con vivande succulente, se alla fine Ceccarelli, da bravo giornalista romano, ci invita semplicemente al “vomitatorium”.
Scrivo questo righe a poco meno che metà libro, precisamente alle pagine sulla Pivetti ( che anche io ho avuto modo di conoscere e incontrare personalmente a Rimini nella sua fase “mistica” di fularini e gonna sotto al ginocchio). Ma se faccio il conto dei personaggi che ho conosciuto anche io personalmente nelle prime 398 pagine fin qui lette, mi sento male.
E la sensazione di veder vorticare attorno a me ― come le carte del Mago Rol ― le migliaia di pagine di giornale finite nella mia fogna, che invece il Mago Ceccarelli ― anzi, il poeta Ceccarelli ― risuscita perché nulla vada perduto di ciò che è stato, mi lascia addosso una sorta di nausea che mi indurrebbe a piantarla lì, ma che si mescola invece con l’ammirazione per una scrittura che rende attraente persino la merda che tratta.
Bisogna che mi convinca che questo libro è, come accennavo, un romanzo più che un libro di storia, o comunque un pasticciaccio “ceccarelliano” dove lingua, cronaca, aforismi e persino poesia si mescolano in una lingua costruita a misura della necessità di fare sembrare poche le 878 pagine in cui si articola; e quasi non necessarie, anzi fastidiose, le ben 80 pagine di bibliografia e indice dei nomi. Che interesse può esserci nel ricercare i nomi dei fantasmi protagonisti di questa ghost-novel?
E tuttavia continuerò nella lettura, mi commuoverò nel rivivere la fine di Berlinguer e nell’immaginare il volto senza volto di Franco Rodano, suo “padre spirituale”; e so che re-incontrerò molti amici e compagni che avrei preferito dimenticare definitivamente, fino al Congresso di Rimini, guarda caso. Ma leggerò fino in fondo l’amaro calice di Ceccarelli, come una medicina contro la perdita della memoria o, peggio, contro l’alzheimer culturale di questa generazione (in senso biblico).
Troppe cose non mi tornano nel racconto di Ceccarelli, troppi buchi se lo raffronto coi miei ricordi personali; ma è il suo pregio di romanziere, è il suo percorso nei meandri della memoria, negli interstizi di una cronaca non ancora diventata Storia. Ma resta un grande libro. Anzi proporrei di sostituirlo alla maggior parte dei libri di Storia adottati dai nostri Licei a conferma che la Storia è tutt’altro che noiosa.