Il futuro della Terra

Ho ancora negli occhi il biancore accecante della Marmolada di ritorno dalla gita che mi aveva portato in vetta, ragazzino, legato in cordata con Don Oreste Benzi in coda e la guida in testa. Un biancore così accecante che mi aveva quasi bruciato le pupille: la sera ero cieco e spaventato. Una montanara di Canazei, chiamata da Don Oreste, aveva preparato un decotto di erbe e me lo aveva applicato sugli occhi. Al mattino ci vedevo di nuovo. Guardo ora con sgomento la fangosa e grigia poltiglia che resta di quel meraviglioso ghiacciaio e percepisco con angoscia il baratro ecologico che l’incuria dell’uomo ha creato. Non ho il coraggio di aprire il baule dove, da qualche parte, sono nascoste le fotografie in bianco e nero, formato tessera, che avevo scattato con la mia Ferrania , una scatolina di latta a scatto fisso che ora conservo in cassaforte, testimone tecnologico di quello stesso baratro che mi separa ormai da quegli anni, così lontani e così vicini, dentro la mia memoria.

Come è potuto accadere?

Mi domando se i montanari di Canazei si sono resi conto di quanto stava succedendo. Ubriacati dal turismo di massa, accecati dalla ricchezza che pioveva su quelle montagne, non si sono accorti che la montagna moriva, che i ghiacci si scioglievano, che il grigiore delle rocce prendeva il sopravvento sul verde dei prati. La Madonna delle Vette, la casa di vacanze costruita da don Oreste , è ancora lì, a due passi dallo Stadio del ghiaccio che ora è la camera mortuaria ben più di quei sette poveri corpi di vittime inconsapevoli di un disastro ben più grande di quello che ha stroncato le loro vite. Un disastro epocale. In poco più di mezzo secolo un Paradiso si è trasformato in Inferno, la nostra disattenzione per quanto stava accadendo, oggi ci colloca sul banco degli imputati. Siamo noi i responsabili. La natura fa semplicemente il suo mestiere, reagisce alle ferite mortali che le sono stata inferte.

Come fare per spiegarlo alle nuove generazioni? Come raccontarlo chi non ha negli occhi e nel cuore la meraviglia di ciò che era quella desolazione grigiastra che oggi i sorvoli degli elicotteri ci mostrano impietosamente, come si mostra un corpo piagato e moribondo che ancora qualcuno ama perlustrare, in cordata, prima di rimanerne travolto? Mi ritrovo ammutolito, senza parole, con un senso di impotenza. Disobbedisco alle ordinanze che impongono di non innaffiare per non sciupare quel poco di acqua che resta mentre le fonti idriche inaridiscono per la mancanza di pioggia, mi sembra che l’oasi di verde che mi sono costruito attorno è il sarcofago in cui voglio essere tumulato, esatto opposto dei condomini di cemento che sono diventati i nostri cimiteri, dove ogni tanto vado a vistare il mio amico Marco Arpesella. A cosa gli è servito essere stato il padrone del Grand Hotel, se ora i suoi resti riposano in un loculo senza un fiore al terzo piano di un orrido e grigio cimitero?

Il dramma dei singoli si scioglie e scompare in un dramma epocale. Vorrei poterlo urlare, ma la voce non esce. Esco all’alba, nella mia piccola oasi, guardo dall’alto questo mondo che sta scomparendo, il sole che filtra dai rami delle querce che ho piantato ad ogni nascita dei miei figli mi ricorda che presto verrà a visitarmi dall’alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che sono nelle tenebre e nell’ombra della morte. Questo il Benedictus, la preghiera a cui mi aggrappo, per i morti della Marmolada come per quelli della guerra in Ucraina e per quelli di ogni guerra insensata e melmosa che stronca vite e speranze prima che possano sbocciare. Si, questo andrebbe ricordato ai nostri figli, non siate disattenti come noi, vostri padri, il futuro della Terra è nelle vostre mani.

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