Guerra: le parole delle donne mai ascoltate

Ti scrivo da sotto le bombe

“Cosa fare quando chi ha potere compie soprusi? Almeno alzare la voce e gridare forte la verità”. La citazione è tratta dall’arringa dell’avvocato di Josey Aimes, operaia in miniera, la cui storia di coraggio è raccontata nel film North Country ― Storia di Josey: è la vicenda (vera) della prima class-action contro le molestie sessuali nei luoghi di lavoro negli Stati Uniti, alla fine degli anni ‘80.

Cosa possiamo fare di fronte alla violenza della guerra, parola che solo a scriverla blocca il respiro? Intanto non normalizzarla, non farla diventare un rumore di fondo nelle nostre vite che scorrono, per ora e per fortuna, solo lambite dalla devastazione bellica a distanza.

E, soprattutto, non smettere di raccontare la presenza e la voce di chi alla guerra si oppone. Con emozione e gratitudine ho accolto l’invito di Gloria Lisi a riesumare la narrazione, purtroppo solo cronologicamente lontana nel tempo, del libro edito dalla mia rivista Marea nel 1999, a cinque anni dalla sua nascita, mentre ancora continua anche in versione cartacea la sua strada.

Il libro si chiama Ti scrivo da sotto le bombe – Pagine di speranza e di rabbia delle donne contro la guerra e le violenze nella ex Jugoslavia, un instant-book nato e realizzato in due notti insonni per memorizzare e diffondere le emozioni, lo scambio e le energie profuse dalle donne per poter ancora una volta dire: “Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere”.

Marea lanciò via mail, allo scoppio della terribile guerra nella ex Jugoslavia l’invito a scrivere, mettendosi in contatto con le sorelle della rete di Donne in nero che operavano nell’est Europa e non solo: fu così che in pochi giorni giunsero centinaia di mail, telefonate, lettere, fax: Ti scrivo da sotto le bombe nacque dunque dalla raccolta di appelli, sfoghi, denunce e annunci di mobilitazione, incontri, dibattiti, sit-in che le donne hanno scritto e vissuto nel lungo spazio della terribile escalation della guerra nel Kosovo.

Linguaggi differenti per un’unica voce, forte e vibrante: quella delle migliaia di donne contro la guerra come strumento per risolvere i problemi, una soluzione che purtroppo dilaga e alla quale c’è il rischio di assuefarsi. Nel testo si intrecciarono voci di donne sconosciute con quelle delle più note, studiose e attiviste come Lidia Menapace, Laura Cima, Lidia Campagnano, Elettra Deiana, Maria Bacchi, Ada Donno, Anna Picciolini, Lea Melandri, Elisabetta Donini, Elisabetta Campus.

Questo libro, come scrivemmo Cristina Papa ed io che ne curammo l’uscita, deve moltissimo all’esistenza della Rete, a cominciare dal fatto che le sue autrici, che avrebbero ragionevolmente potuto conoscersi in moltissime occasioni, come assemblee, iniziative e convegni si sono invece ‘incontrate’ attraverso una lista di discussione on line, ledonne@ della Città Invisibile.

Dall’inizio della guerra i giornali dedicarono le loro prime pagine a quello che più o meno eufemisticamente viene definito “la tragedia”, “il disastro”, “il dramma” del Kosovo. Esattamente ciò che accade oggi con la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina.

Al di là delle possibili valutazioni della guerra come soluzione dei conflitti, (la nostra fu, ed è, naturalmente, negativa), la prima cosa che saltò agli occhi allora fu l’uso di un vocabolario che sarebbe stato ben più adatto a descrivere una catastrofe naturale, in qualche misura inscritta nel destino di un luogo, piuttosto che gli effetti di una scelta: la scelta delle armi.

Una scelta scellerata, che nega la mediazione, il dialogo, e attiva il rischio concreto di una guerra globale e definitiva, letale per l’intera umanità. La scintilla che ci fece attivare per lanciare la sollecitazione a scrivere fu la mail di una giovane genovese: “Lo sgomento, la rabbia e l’impotenza nell’ascoltare le notizie questa sera, mi hanno spinto a scrivere la mia angoscia solitaria e provare a condividerla con voi che vorrei foste tutti insieme a me in questo momento.

Vorrei essere abbracciata, e che mi copriste le orecchie per evitare di ascoltare parole come bombardamenti, profughi e guerra fredda, parole che provengono dalla voce odiosa della TV ― Soledad

Cambio canale e programmi stupidi di finta gioia non fanno che aumentare il mio sconforto. Vorrei sentire parole di accusa e di sconcerto, come quello che provo io; io che non riesco a sedermi e rilassarmi né a mangiare. Per favore, ditemi che non sono sola a sentirmi cosi.

Come Soledad. in molte cercammo le altre, amiche, ma anche “compagne di lista”, con il desiderio urgente di non tacere davanti a quella che era avvertita palesemente come un’ingiustizia ma con la paura di dire parole non significative. Così Francesca scrisse alla lista:

” Non mi è facile esprimere considerazioni sulla guerra. E’ troppo comodo schierarsi a fatto accaduto e quando ormai l’odio interetnico fomentato da chissà quali e vari interessi, ha portato le popolazioni sull’orlo di un massacro. Non condivido il pacifismo (come posizione assoluta), anche se sono nonviolenta. Quello che mi chiedo è perché la grande e potente Europa industrializzata permetta che in questi paesi si arrivi al punto in cui si è arrivati.

Se ci si permette di intervenire contro il diritto nazionale e internazionale con una guerra, allora si potrebbe anche permettere di intervenire prima nelle dinamiche interne di questi paesi ad esempio sostenendo e finanziando politici non nazionalisti, o appoggiando e finanziando propagandando posizioni politiche diverse, o ancora combattendo le potenti mafie delle armi e della guerra. Sarebbe oltre che più giusto e meno violento, anche più economico di una guerra. Forse dico delle banalità, non so”.

La testimonianza di Barbara, giornalista, offrì lo spunto per una discussione sul ruolo dei media che va ben oltre la semplice testimonianza di un disagio.

“Credo sia inutile disquisire su chi ha ragione o torto in questa guerra. Certo non si può restare impassibili di fronte alle atrocità, ma non credo che la guerra sia la soluzione giusta. La guerra per il mondo è una serie di immagini a colori, si vedono i morti, gli aerei, i fuggiaschi, le città e i villaggi. Ma a volte una guerra è racchiusa in immagini e ricordi che neanche la più geniale inquadratura può toccare.

A volte mi sono vergognata io stessa delle mie reazioni. Comprimere l’orrore in poche righe. C’è chi dice che questo confezionamento dell’orrore non fa che aumentare la distanza tra il pubblico e la realtà dei fatti. L’ho pensato anch’io spesso. Troppi giornalisti, parlando dei Balcani, si lasciano condizionare da quest’idea di una scia di sangue che attraversa decenni di storia. Non si tratta solo di giornalismo pigro, ma di un insulto alla memoria di migliaia di morti.

Da quando sono tornata dal Medio Oriente ho sentito molti compatire, con falso tono, i terroristi arabi e la loro terra perduta. E’ facile parlare così, ignorando la presenza di un gran numero di brave persone, che fanno del loro meglio in una situazione che farebbe impazzire chiunque.

Ed è comodo tacere sul ruolo svolto (o non svolto) dagli europei, messaggeri di cultura e civiltà, che non hanno fatto che aumentare il risentimento tra le varie etnie (vedi Africa). Si è sempre convinti che da qualche parte c’è una forza del bene a impedire il trionfo definitivo del male.

I ragazzini vestiti di stracci che morivano e quelli che li uccidevano appartengono alla stessa specie a cui appartengo anch’io: la specie umana. Sarà una parentela scomoda, forse, ma non posso rinnegarla.

Essere testimoni di una guerra significa confrontarsi non solo con il terrore della morte che ci attende, ma anche con la degradazione di ogni valore umano. Non mi interessa se qualcuno mi liquiderà dicendo che le mie considerazioni sono troppo sentimentali o semplicistiche”.

La ricchezza di quelle voci non ha potuto essere ascoltata né ai notiziari televisivi né, spesso, letta sul giornale.

La Rete ha portato con percorsi non sempre lineari (l’appello delle 17 ONG di Belgrado arrivò attraverso una donna messicana) questi messaggi scritti in tante lingue e frutto di esperienze e pratiche diverse, da un computer all’altro e da una donna all’altra che li ha ritrasmessi come ha potuto: parlandone con altre, scrivendolo sui giornali a cui aveva accesso (e qui è evidente che un grosso ruolo l’hanno avuto le testate autogestite di donne), e infine pubblicando questo libro.

La Rete però, senza le reti reali di donne non avrebbe potuto nulla. Ti scrivo da sotto le bombe è stato dunque qualcosa di più che una semplice memoria dell’opposizione delle donne alla guerra: un appello rivolto a tutte ad infittire i nodi della maglia che unisce, magari per strani percorsi, tra loro associazioni, collettivi, gruppi di studio, donne singole.

Le sue pagine sono state pensate per non dimenticare e cancellare, una volta finita l’onda di emozione per le vittime dei massacri del nazionalismo e della guerra, le tante voci che si sono levate dai gruppi e della singole contro la logica della guerra come strada per l’affermazione dei diritti umani e le aggressioni militari come mezzo per dirimere i conflitti.

Ma, soprattutto, il libro ha voluto raccogliere la memoria collettiva di quante non considerano ‘realismo’ politico la guerra e ‘utopia’ la pace.

Ed è, infine, attuale anche oggi perché invita ad usare tutte le potenzialità della Rete per creare spazi di discussione che possano valicare i confini del nostro paese e coinvolgere donne di altre lingue, esperienze, pratiche.

Senza naturalmente dimenticare che la carne e le ossa sono indispensabili se si vuole che le relazioni che viaggiano sui cavi abbiano stabilità e non cadano alla prima interruzione di corrente.

Come con fatica si sta facendo ora, anche da questo sito, da chi lo anima e crede che solo dalle relazioni nonviolente si possa costruire cambiamento.