Chi si può ancora permettere il lusso della lentezza in un mondo che ci costringe a correre? E’ una domanda a cui cerco la risposta già da un po’ di tempo. Mi trovo nell’estremo nord della Romania per condurre un corso di fotografia, in una regione che confina con l’Ucraina: il Maramureș. Il tema del corso, su cui i partecipanti lavoreranno, è “rappresentare la lentezza”. Insieme, cercheremo una risposta a questa domanda che mi pongo già da un po’ di tempo.
L’approccio fotografico stesso cambia quando ci concediamo il lusso della lentezza: possiamo scegliere l’inquadratura giusta, capire la luce per poterla sfruttare al meglio, prendere la distanza giusta dai soggetti, avvicinarli nel modo più intimo possibile e poi, e solo poi, scattare la fotografia. E’ quello che abbiamo cercato di fare durante questa esperienza impostata sulla ricerca degli elementi che costituiscono una comunità attraverso le latitudini rurali del mistero.
Il Maramureș
Il Maramureș è una regione rurale ― caratterizzata da un ricco patrimonio culturale, sia materiale che intangibile, e da molti siti riconosciuti dall’UNESCO ― dove la globalizzazione e la grande distribuzione fanno fatica a mettere piede.
L’anima più vera del Maramureș la si trova soprattutto nei suoi villaggi, piccole comunità che rappresentano tuttora un cosmos lento, sacro e protetto: tutto ciò che si trova al suo esterno rappresenta un mondo profano e sconosciuto, ben delimitato dal suo hotar (confine). Un confine che in passato serviva a difendersi dai nemici esterni mentre oggi rappresenta una barriera — più simbolica che reale e mai ostile — per conservare una sua dimensione atemporale, che sembra come opporsi agli aspetti più deleteri della modernità.
E poi ci sono le persone… La gente è senz’altro il valore aggiunto di questo posto. Nella cordialità, nell’umanità e nella semplicità degli abitanti di Maramureș ritrovi quegli elementi che ti riportano ai valori essenziali della vita. Per quello che mi riguarda, mentre li fotografo, ritrovo le stesse sensazioni che provo a teatro, arte che permette di guardare dentro di se.
Le persone qui sono legate a poche cose: tutto sembra girare intorno alla vita nel villaggio, alla morte e al passaggio tra queste due dimensioni. Si respira una specie di legame con “l’aldilà” e la morte viene vissuta come un passaggio tra due stati energetici. Forse è per questo che ci sono tantissime chiese e cimiteri.
Non mi sono mai piaciuti i cimiteri: da bambino ho partecipato a molti funerali di persone care. Momenti che hanno lasciato dentro di me segni indelebili che porto tutt’ora. Invece, si può dire che qui i cimiteri sono un piacevole “stato d’animo”. Li trovi ovunque: dietro le case, nei giardini, di fianco all’orto dei pomodori, all’interno dei campi di legumi.
I cimiteri, come le chiese, sono parte del villaggio e ― come ha scritto il filosofo rumeno Lucian Blaga ― contribuiscono anch’essi a fare del villaggio un luogo di vita e uno snodo cruciale per acquisire consapevolezza di sé e quindi per affermare l’individualità di un uomo e di un popolo.
Mi ricordo: guardavo il villaggio stendersi volutamente attorno alla chiesa e al cimitero, ossia attorno a Dio e ai morti. Questa circostanza, che solo molto più tardi mi è sembrata particolarmente significativa, faceva in qualche modo da eco all’intera vita che si svolgeva intorno a me. La circostanza era una sorta di tono, più profondo, che offriva al tutto una sfumatura di necessario mistero.
Circoscrivevo il luogo in cui si trovava Dio nello spazio rituale oltre l’iconostasi, da dove lo percepivo diffondersi nel mondo. Non era questa una favola, raccontatami come molte altre, bensì un’immutata professione di fede. Facevo una netta distinzione tra il “racconto-racconto” e il “racconto-reale”. La topografia del villaggio era piena di simili luoghi mitologici. A ogni passo le prospettive divenivano più profonde e si innalzavano.
La veranda dei vicini, sempre molto tenebrosa, era senza ombra di dubbio un luogo in cui, almeno ogni tanto e soprattutto la domenica, si rifugiava il diavolo. Non ho tentato una volta, con altri venti bimbi, tutti attraversati dai brividi di una guerra santa, di scacciarlo generando con ogni sorta di attrezzo dei rimbombi da tribù africana?”
Da qualche parte accanto al villaggio c’era un vortice; eravamo convinti che quel fango senza fondo si connettesse veramente all’inferno da dove uscivano nuvole di fumo.
Ci si deve immedesimare nell’animo di un bambino, che se ne sta silente ai margini del vortice e si immagina quella dimensione “senza fondo”, per intendere cosa possa significare per un uomo una geografia mitologica. E nel declivio rosso, scosceso, della collina dei vigneti, dimorava realmente un orco. Il villaggio era dunque situato al centro dell’esistenza e si protraeva, per la sua geografia, nella mitologia e nella metafisica.
Queste formavano la cornice naturale e scontata del villaggio. Il villaggio esiste nella coscienza del bambino come un mondo, come l’unico mondo molto più complessamente costituito e con altri orizzonti, più vasti di quelli che può avere avere una grande città o una metropoli per i suoi bambini. Con ciò tocchiamo la distinzione essenziale tra “villaggio” e “città”. Il villaggio non è situato in una geografia puramente materiale e in una rete di determinanti meccanici dello spazio come la città; per la sua stessa coscienza il villaggio è situato al centro del mondo e si prolunga nel mito. Il villaggio si integra in un destino cosmico, in un moto di vita globale oltre il cui orizzonte nulla esiste più. Questa è la coscienza latente che il villaggio ha di se stesso.
Mi azzardo ad affermarlo perché così è inteso e vissuto il villaggio al punto culminante dell’infanzia, la sola età che possiede la perfetta affinità col modo esistenziale del villaggio.
(Lucian Blaga)
Già dalla prima volta in cui ho preso contatto con queste terre ho avuto la percezione di trovarmi un luogo particolare, diverso. e che i suoi villaggi erano lo snodo cruciale per poter prendere consapevolezza di sé. Un luogo in cui è impossibile perderti, anche se è la prima volta che sei li. Anzi, spesso finisci per ritrovarti. E’ quello che succede a me tutte le volte che torno qui.
I villaggi del Maramureș — con i loro ritmi, le consuetudini, i colori, i vestiti tradizionali indossati con fierezza nelle festività, il pane intrecciato in cui è racchiusa l’ospitalità di questa terra — rappresentano un luogo privilegiato per capire come sia possibile per le piccole comunità conservare, tra solitudini e speranze, la propria identità culturale senza per questo chiudersi in sterili egoismi.