Certo che stridono quelle unghie curatissime e laccate, dai colori inverosimili, maniacalmente riprese dagli operatori che registrano il pianto delle donne ucraine costrette a lasciare il loro Paese e i loro mariti che forse non rivedranno. Del resto questa impressionante migrazione di massa che riversa nelle nostre città migliaia di donne ucraine è come l’onda d’urto dopo la rottura dell’argine che già negli anni passati lasciava filtrare uno stillicidio di badanti che scomparivano nelle nostre case, a badare i nostri vecchi, a spingere le loro carrozzine nei parchi.
“Ucraina” era per noi sinonimo di “badante”, detto con malcelato razzismo proprio per quella cultura aliena di cui erano inconsapevoli portatrici, lavoratrici pronte a tutto pur di mandare in Patria, una Patria a noi sconosciuta, le loro rimesse da emigranti , il frutto del loro lavoro.
E se il loro lavoro, a volte, sconfinava nella furbizia con cui le più avvenenti si accompagnavano ai loro assistiti sottraendo eredità agli eredi legittimi, ridacchiavamo sotto i baffi pensando: “Ben gli sta”, “Contenti loro”, “Bastava guardare come si curava le unghie”. Ucraina, russa, o moldava, era per definizione la personificazione di una morale aliena, di un cinico uso del sesso, di calcolo freddo su come trarre massimo profitto dalle peggiori condizioni di ospite in terre straniere. Vederle passeggiare in stivali bianchi con le punte a spillo ci dava fastidio, si impossessavano degli spazi “pubblici” che noi indigeni abbandonavamo a favore dei lussi privati delle nostre case.
Dove fosse l’Ucraina o la Moldavia ci interessava zero; e se ci raccontavano che venivano da Mariupol o che a Dniepr avevano lasciato la mamma e la nonna ci immaginavamo chissà che, dei villaggi sperduti nel niente. Il fatto è che la guerra ha improvvisamente mandato all’aria questa nostra forma di razzismo mascherato da interessati “datori di lavoro”. Ma quelle unghie curate e dipinte, quelle dita affusolate, ci inquietavano ieri e continuano a inquietarci oggi quando le vediamo inquadrate sullo sfondo di macerie, ponti distrutti, bambini strattonati.
E ancora non capiamo, ancora non facciamo nessuno sforzo di capire una cultura aliena, ma fatta di metropoli che assomigliano a Milano, di grandi arterie stradali, di ponti, monumenti, piazze, obelischi, centrali nucleari, bancomat, al tempo stesse simili e diverse da quelle che le immagini televisive ci propinano fra un allarme e l’altro, mescolando ancora una volta tutto, il prima, il dopo e il non ancora. E disquisiamo da veri imbecilli se ha ragione Putin o Zalensky, lo zar o il buffone alla Beppe Grillo, eroe per caso.
E al tempo stesso guardiamo attoniti ai giganteschi tavoloni ovali (fabbricati in Italia) attorno a cui Putin convoca i suoi gerarchi e la memoria ci trasporta inconsapevolmente al “lettone” offerto dal ras all’amico Berlusconi, con contorno di fanciulle dalle unghie affusolate e minacciose a lasciare solchi sulla schiena dell’amico italiano del monarca. Quelle sale, quei corridoi, quegli stucchi, quelle scrivanie oggi sembrano il ridicolo preludio alla terza guerra mondiale.
Possibile? Noi che a malapena ricordiamo una terzina della Divina Commedia come potremmo conoscerei grandi poemi di culture aliene come Il Canto della schiera di Igor del XII secolo? O chi ha mai sentito parlare di Kobzar e del suo autore Taras Schevchenko, “poeta di eterna fama” per i bambini che oggi vediamo strattonati verso un futuro tutto occidentale? E chi si ricordava che Anime morte di Gogol fosse ambientato nelle campagne ucraine e che ucraino fosse persino Joseph Conrad?
Conservo gelosamente tutta la serie dell’Editore Sadea Sansoni dedicata alle Letterature di tutto il mondo a cura di Giacomo Devoto: non avevo mai notato che manca totalmente quello dedicato alla letteratura Ucraina, assimilata a quella della odiata Russia. Ci voleva la sempre sia benedetta Wikipedia per scoprire che nel 1721 fu bandito l’uso della lingua ucraina e che la scuola kieviana passò al servizio dell’Impero Russo. O che la città di Charkiv dal 1805 divenne sede di una università. Ma la risposta russa non tardò ad arrivare: nel tentativo di frenare il crescente sentimento nazionale ucraino fu vietato nuovamente l’utilizzo della lingua ucraina nelle comunicazioni ufficiali e negli ambienti culturali.
Forse basterebbero queste brevi pennellate di storia per capire il forte risentimento ucraino nei confronti della Russia, che come si vede ha radici lontane e profonde; ma non basta. La verità è la televisione in queste giornate di guerra ci rende un pessimo servizio: non sappiamo nulla di cosa si insegnava nelle scuole e nelle università ucraine, di come siano i giornali ucraini che continuano a uscire, di come fosse il suo teatro, la sua musica, la sua televisione (dove l’attuale Presidente ha svolto ruoli ben diversi da quello attuale, una specie di Beppe Grillo ucraino, mi par di capire).
E l’origine ebraica di Zalensky non ci spinge minimamente a indagare il senso della mediazione israeliana per porre fine al conflitto. Insomma, le unghie laccate delle donne ucraine nel cuore della tragedia ci portano lontano, come si vede. Dove, non si sa. Speriamo non nella terza guerra mondiale.