Siamo molto grati al nostro ex-Prefetto Alessandra Camporota per aver accolto la provocazione di 5835 Magazine per ragionare con noi, in tempi così foschi e pericolosi, sulla “diversità di genere” ai vertici delle Istituzioni.
La domanda che ci poniamo è tanto banale quanto sconvolgente: sarebbe concepibile un Putin al femminile capace di minacciare la Terza Guerra Mondiale con le sue decisioni criminali, se mai una donna fosse stata in grado di scalare tutti i gradini del potere statuale di un grande Paese?
L’autrice mostra tutta la sua saggezza al tempo stesso di donna e di rappresentante dello Stato, nel formulare la sua articolata risposta.
Non c’è nessuna “garanzia” di tipo biologico: la persona viene sempre prima e c’ è solo da augurarsi che sia la “sapienza” a prevalere sul “genere” .
” Il femminismo è il passaggio obbligato per chi vuole conoscere l’amore. E allo stesso modo la politica non può essere che basata sull’etica dell’amore, piuttosto che sull’usurpazione del potere e del controllo. La chiave, dunque, è l’amore e il suo potere trasformativo”.
Grazie, Eccellenza (ops!), grazie carissima amica di Rimini, per questa Sua lezione davvero magistrale.
Come si rappresenta lo Stato “con la gonna”.
Il mio amico Mario mi ha chiesto una breve riflessione sull’essere donna e rappresentare lo Stato. La leggerezza che mi aveva chiesto di utilizzare nel ricostruire, con qualche aneddoto, la mia esperienza di Prefetto di Rimini è stata purtroppo offuscata dall’angoscia nella quale siamo precipitati tutti dal 24 febbraio e che fa concentrare i miei pensieri sulle donne, sulle madri, sulle nonne che fuggono per mettere in salvo i propri bambini.
Penso a Nadia, la signora di Leopoli che accudisce mia madre e che sento tutte le sere, chiedendole notizie della sua famiglia, del figlio richiamato al fronte, dei suoi nipoti. Vorrei dedicare quindi queste brevi riflessioni alle donne ucraine.
Nel momento in cui scegliamo l’amore, ci opponiamo al dominio, all’oppressione. Nel momento in cui scegliamo di amare, comincia la nostra liberazione, quindi agiamo per liberare noi stessi e gli altri. Questa azione ci viene dall’amore in quanto pratica di libertà” (Bell Hooks, 1994).
A David Sassoli, un uomo, ma un uomo “d’amore” e non “di potere”.
Avere l’onore di rappresentare lo Stato italiano in una comunità è per me, innanzitutto, la realizzazione di un sogno. Assumersi poi la responsabilità di farlo seguendo la propria sensibilità è un grande privilegio.
Sgombriamo subito il campo da una battaglia che non mi appartiene, quella linguistica, il cui diniego tradisce forse la mia età: farmi chiamare “Prefetta” non mi entusiasma. Tengo molto di più a non farmi chiamare “Eccellenza”: è diventata per me una questione di principio, di sostanza e non di forma, come ho ripetuto molte volte. In questo esercito una virtù che dicono essere tipica delle donne, la perseveranza.
Un’altra dote che apprezzo, considerata tipicamente femminile, è la resilienza – termine un po’ abusato – che corrisponde in sostanza al motto “mi piego ma non mi spezzo”. La resilienza si esprime spesso attraverso l’educazione e la gentilezza, qualità che amo e che troppo spesso sono confuse con la debolezza.
La mia adolescenza e la mia giovinezza si collocano in un periodo di grandi lotte di affermazione del femminismo; arrivare a ricoprire un ruolo di vertice ha rappresentato per me una rivalsa nei confronti della generazione delle nostre madri, eroiche ma silenziose lavoratrici, mogli di uomini tradizionali. Che hanno svolto, come è stato per mio padre, ruoli importanti nella società grazie anche a loro.
Trovo ancora di straordinaria attualità le osservazioni della pedagoga Elena Gianini Belotti che negli anni Settanta, nel suo primo libro Dalla parte delle Bambine, fu dirompente nel sostenere che la tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina non sia dovuta a fattori innati, bensì ai condizionamenti culturali che l’individuo subisce nel corso del suo sviluppo.
Nelle riflessioni della Gianini Belotti è scalzato il mito della “naturale superiorità” maschile contrapposta alla “naturale inferiorità” femminile, in virtù della conclusione che non esistano qualità “maschili” e “femminili”, ma solo “qualità umane”.
È a queste idee, dunque, che preferisco ispirarmi nella mia vita privata e lavorativa, nei miei rapporti di amicizia e di collaborazione, nella mia relazione con gli uomini e con le donne.
Mi è stato chiesto spesso in questi anni se essere una donna che ricopre incarichi di responsabilità e ruoli apicali abbia comportato particolari sacrifici, e come venga recepita dalla famiglia una figura femminile “di potere”. A questa domanda rispondo sempre che non considero il mio un ruolo “di potere” ma “di servizio”, e che ritengo una fortuna poter coniugare il mio lavoro con la passione di lavorare al servizio di una comunità.
Il percorso professionale che mi ha consentito di arrivare al vertice della mia carriera è stato impegnativo ma ricco di stimoli, di conoscenze, di esperienze preziose che mi hanno ampiamente ripagato anche dei sacrifici che negli anni ho dovuto chiedere ai miei cari.
Mario si era riferito, nella nostra conversazione, anche alla recente elezione del Presidente della Repubblica, ed al miraggio di un Presidente donna, chiedendomi qualche considerazione in proposito. Purtroppo anche su questo ho idee abbastanza banali, perché da cittadina mi interessano la profondità, l’autorevolezza, la competenza, la sensibilità di un Presidente, la sua umanità e la vicinanza vera e profonda ai più fragili.
Si tratta di doti che Sergio Mattarella incarna pienamente – confermandosi dunque un ottimo Capo dello Stato – ma che sono certa saranno rappresentate anche da una donna Presidente. Molte di noi, impegnate in diversi ruoli nella società, saprebbero svolgere questo incarico “con disciplina ed onore”, come recita la nostra Costituzione, oltre che con passione.
Sostengo questo con riferimento alla mia esperienza personale, perché essere donna ha voluto dire poter esercitare il mio modo di interpretare la responsabilità che mi è stata affidata nell’ottica della condivisione e dell’interesse al perseguimento del bene comune. Come esercizio di empatia e di umanità, sforzandomi, insieme ai miei interlocutori, di trovare sempre la via migliore, di non accontentarmi delle soluzioni più semplici, coniugando però anche l’esigenza di rapidità ed efficacia negli interventi.
L’acme di questo impegno l’ho raggiunto durante il periodo riminese, ed in particolare nel momento più duro della pandemia, quello che ha cambiato la vita di tutti noi: la prima metà del 2020. Scorrendo i ricordi e le testimonianze, nel momento del mio commiato da Rimini, credo che siano significative le dichiarazioni che hanno voluto fare in quella occasione alcuni primi cittadini, ricordando i mesi più duri del lockdown e quel confronto quotidiano che si è dimostrato “uno spazio prezioso di discussione, sfogo, comprensione, sollievo a una stanchezza fisica e psicologica che in quel momento gravava su chi porta su di sé responsabilità collettive”.
Se dovessi giudicare il mio operato di allora, le maggiori qualità che mi riconoscerei in quel frangente sarebbero la disponibilità, la pazienza e la capacità di fare squadra, qualitativamente migliori e più efficaci del mero esercizio del “potere”. Qualità sperimentate anche con tante meravigliose donne riminesi, con le quali ho collaborato con amicizia, lealtà e impegno; in particolare con Gloria, Laura, Patrizia, Emilia e Raffaella, donne talentuose e risolute ma anche allegre e appassionate, ho condiviso un percorso comune di maturazione umana ancor prima che professionale.
Altre volte, in passato, nella mia esperienza lavorativa la competizione tra donne aveva prevalso sulle spinte collaborative, facendomi talvolta assistere a (e subire) comportamenti esemplati sulla cosiddetta “mascolinità tossica”: spregiudicatezza, arroganza e volgarità. Ciononostante, ho avuto sempre chiaro il mio modello di autorevolezza, ispirato a riferimenti familiari positivi: una madre mite, un padre autorevole ma non autoritario, un marito sempre pronto al sostegno.
In definitiva, per me l’esercizio del “potere” è raziocinante senso di responsabilità, dovere dell’equilibrio ma anche della denuncia se necessario. È far coincidere la mia essenza con il ruolo che ricopro. Quindi l’approccio diretto, l’attitudine al confronto e alla collaborazione, la capacità di prendere decisioni con conseguenze importanti in autonomia, ragionando nell’interesse generale e non particolare né parziale.
Ho trovato illuminante in questi giorni confusi e di orrore il pensiero di una scrittrice ed attivista americana, Bell Hooks, morta nel dicembre del 2021, legata alle lotte femministe e anti-discriminatorie degli anni Settanta, la quale nei suoi libri contrappone alla “mascolinità tossica” patriarcale la “mascolinità femminista”, in cui il potere è definito come la capacità di una persona di essere responsabile per sé e per gli altri piuttosto che come forma di prevaricazione.
Questo modello ha aiutato gli uomini che si rifiutavano di arruolarsi nella guerra del Vietnam: la teoria femminista avrebbe offerto loro la possibilità di giustificare la loro opposizione alla mascolinità sessista. Secondo Bell Hooks, insomma, senza il femminismo un movimento contro la guerra sarebbe stato impensabile. Il femminismo, affermava, è il passaggio obbligato per chi vuole conoscere l’amore. E allo stesso modo la politica non può essere che basata sull’etica dell’amore, piuttosto che sull’usurpazione del potere e del controllo.
La chiave, dunque, è l’amore e il suo potere trasformativo: amore per sé stessi e per gli altri, che ci rende audaci, capaci di assumerci le responsabilità del “potere” e di sentirci liberi.
Un pensiero quanto mai attuale.
― Alessandra Camporota