2022 Odissea nello sport

Alla ricerca della palestra perduta

Chi lo avrebbe mai detto che dopo l’ultima guerra globale, risalente ormai a 70 anni fa, lo sport si sarebbe fermato in tutte le sue forme? Dall’agonista non professionista al bimbo di 5 anni accompagnato dalla mamma al campo sportivo, dall’atleta super pagato al ragazzo in sala pesi che si mantiene in forma per la prova costume estiva… Magazzinieri, istruttori, dirigenti, la pandemia è arrivata come uno tsunami e ha spazzato via anni di progetti sportivi e investimenti sia umani che finanziari.

Le conseguenze sono molteplici e ora che l’attività sportiva di base è ripartita (un incrocio di dita è d’obbligo al netto del susseguirsi delle ripetute ondate virulente) una riflessione su di essa può essere tentata, un po’ come quando il martedì, passata l’adrenalina del momento, si analizza tra allenatori e atleti la performance del weekend precedente, a mente fredda.

Tralasciando il professionismo che ha la base delle sue regole legate al “fine di lucro”, il nostro focus si dirige su tutto ciò che non lo è, cioè lo sport nella sua essenza, dalla formazione di base dei più piccini fino alle soglie della maggiore età. Compito arduo, essendo proprio questo il settore più colpito, in questo periodo nefasto. L’universo delle A.S.D (Associazioni Sportive Dilettantistiche) e sue simili è l’entità sulla quale è puntata la nostra luce, il mondo di chi si prende in carico il bambino di 4 o 5 anni e si occupa del suo sviluppo e crescita fino all’età matura, un bacìno di potenziali campioni, allenatori/maestri, dirigenti del futuro.

All’improvviso, questo delicato e fondamentale meccanismo universale si è inceppato e le certezze sulle quali si basava, svanite, lo smarrimento e l’incertezza si sono abbattuti sullo svolgimento della pratica sportiva – come allenamenti e competizioni – sollevando tutte le criticità a cui prima nessuno avrebbe dato peso.

Ci si interrogava se era giusto o no continuare le attività per il bene del bambino o del ragazzo che fosse, se la struttura nella quale si svolgeva il tutto fosse adeguata, se fosse giusto partecipare o no a gare o incontri o partite in palazzetti e luoghi ancora gremiti più o meno di pubblico. Gli atleti, i nostri figli, erano sicuri?

Chiudere le attività avrebbe dato un colpo letale alle associazioni sportive, che è banale dire si sorreggono solo con il contributo monetario delle famiglie dei giovani praticanti: si sarebbero poi dovute rimborsare le quote, nel caso di scarsa comprensione delle famiglie dei ragazzi e bambini che si vedevano preclusa la pratica del proprio sport.

Purtroppo i quesiti posti erano tutti leciti. Le strutture sportive hanno mostrato tutte le loro criticità e la loro carenza è ormai patologica, molte risalenti agli anni ’70, figlie di decenni di abbandono da parte delle Istituzioni con nessun investimento e nessuna programmazione politica.

Le realtà associative si sono trovate per la maggior parte dei casi abbandonate a loro stesse; e da sole hanno dovuto affrontare le conseguenze di questi oscuri presagi. Molte , soprattutto quelle appena create, hanno dovuto chiudere i battenti, una sorta di “selezione naturale”, con risvolti tragici per atleti, operatori ed educatori.

Atleti, operatori ed educatori (allenatori, preparatori, maestri, istruttori): tre categorie alle quali sono state negate anni di esperienze, di accrescimento sportivo ed emotivo, di stipendi e contratti di collaborazione. Sappiamo benissimo quanto conti arrivare pronti al momento cruciale delle “Sliding doors” in forma perfetta. C’è un periodo nella vita di uno sportivo nel quale tutto si decide o quasi. E per sportivo si intende il bambino che non ha provato quel tale sport e si è chiuso con i suoi videogame in casa, la ragazza che non ha potuto fare esperienza agonistica di maturazione tra i 16 e 18 anni, il ragazzo che non ha potuto fare il corso di istruttore/allenatore e ha perso l’occasione, la danzatrice che sognava di aprire una scuola di danza in una comunità in cui mancava.

Si è perso quindi forse una buona parte del patrimonio sportivo del futuro e le conseguenze su quelli che saranno o non saranno i campioni di domani sono inimmaginabili.

Lo spaccato che ci racconta Ljuba Giangaspero, Maestra della Federazione Italiana Scherma, compagna a sua tempo della plurititolata olimpionica Valentina Vezzali e responsabile della formazione dei giovani schermitori riminesi in forze al Club Scherma Ariminum, è davvero inquietante:

“I bambini di III e IV elementare che erano alle soglie dell’agonismo (10 anni di età) – ricorda mentre il suo sguardo cade su due piccini che si affrontando in pedana – si sono ritrovati senza i due anni di preparazione alle gare e catapultati quindi alle competizioni interregionali e nazionali senza quel bagaglio di esperienza emozionale e tecnico necessario. Gli under 14 che già dai 10 anni di età erano agonisti, per il medesimo lasso di tempo hanno subito come un blocco cronologico, congelando la loro vena competitiva sportiva, senza avere la possibilità di misurare il loro livello di crescita con i coetanei. Gli spazi adibiti agli allenamenti erano e sono quelli che sono – scuote la testa sconsolata la maestra Ljuba – e con i protocolli della FIS eravamo costretti ad allenare un numero limitato di atleti per sessione, dovendo quindi spacchettare la rosa in piccoli gruppi con le difficoltà logistiche e tecniche del caso. I più grandi come gli Under 17, che affrontano una categoria ancor più impegnativa, a cascata a loro volta si sono tuffati , purtroppo, molti non pronti, nella scherma dei grandi, sovente senza aver maturato a loro volta il Know-How di gare e allenamenti necessari alla loro crescita”.

Conclude poi con un’ultima considerazione sulle società e federazioni dicendo: “A livello di iscritti non sono mancati i problemi dati dal susseguirsi delle ondate di Covid-19, che hanno lasciato le famiglie nell’incertezza più assoluta, iscrivere o no i propri figli in questo caso, ad una attività che si svolge prettamente al chiuso? I maestri e gli istruttori hanno cercato di adattarsi alle situazioni più svariate cercando la chiave di volta per tenere vivi l’interesse e l’attenzione sulla disciplina sportiva sopperendo come hanno potuto all’assenza di competizioni agonistiche, mentre la FIS dal canto suo ha cercato sempre di stare al passo con i protocolli che erano in continuo mutamento, facendo infine levare la scherma dagli sport di contatto”.

L’onda lunga dello tsunami pandemia sembra ora pian piano ritirarsi e come dopo ogni distruzione, ci si mette all’opera per la ricostruzione, in questo caso dello “Sport di base”, quello da dove tutto inizia, passione, emozioni, valori educativi, spirito di gruppo, competizione, confronto con il prossimo.

Mancano però gli strumenti attuativi, gli investimenti sulle infrastrutture, ormai decadenti o assenti, i fondi monetari che alimentino la galassia delle Associazioni Sportive, in buona sostanza manca una politica sportiva seria. Sono le risorse fondamentali che servirebbero per uscire dalla criticità del momento, una boccata di ossigeno che faccia ripartire il cuore delle attività.

Le Federazioni dal canto loro non sono esenti da critiche o colpe ma a dire il vero le iniziative non mancano, ognuna si sta leccando le proprie ferite, adesso possono essere il fulcro della ripresa della propria disciplina. Urge sempre più trovare la leva per sollevare il macigno pandemico che le ha oppresse.